Uscita quasi indenne dalla visione di “Factotum”, un finto biopic semiquasi autorizzato su Charles Bukowski travestito da trasposizione filmica dell’omonimo romanzo (il progetto era partito come film sulla vita dell’autore, poi convertito in una più rassicurante pellicola tratta dal libro per ovviare a problemi legali nati dallo stesso Bukowski), mi sono lanciata in una riflessione sull’ossessione di Hollywood a voler per forza convertire le vite di scrittori famosi in pellicole patinate e pulite da propinare al grande pubblico senza chiedersi se al grande pubblico importi minimamente qualcosa (lo dico da subito: no).
Capisco il voler fare biopic (termine ormai sdoganato per indicare i film-biografia) sui personaggi del
cinema, in un atto onanistico e ciclico di Hollywood da cui tutto parte e al quale tutto ritorna: ad esempio la noiosissima pellicola su Alfred Hitchcock, salvata più dalla performance di Helen Mirren che da quella di un Sir Anthony Hopkins soffocato dal trucco di scena; capisco anche i biopic su personaggi del mondo dello spettacolo come Grace Kelly, Ray Charles, Audrey Hepburn, Marilyn Monroe; ma i biopic sugli scrittori, che vivono in un mondo a parte, ben lontano dai riflettori e perlopiù mentale, rischiano di trasformarsi – nel migliore dei casi – in un insuccesso globale, nel peggiore in un film noioso e dimenticabile. “Factotum”, per quanto non sgradevole, rientra nella seconda categoria per un semplice motivo: è troppo pulito. Un film ispirato a Charles Bukowski, ad un suo romanzo, alla sua vita, alle sue poesie, o anche solo ad un suo mezzo racconto scribacchiato su un biglietto del tram, non può essere pulito. Un Henry Chinaski sbarbato o finto sporco per le telecamere, per quanto interpretato da Matt Dillon, non sarà mai credibile. Charles Bukowski stesso, ne Il capitano è fuori a pranzo, racconta il disagio nel vedere le foto degli attori che si proponevano di interpretarlo in un film sulla sua vita (molti anni prima che venisse prodotto “Factotum”) e di trovare “terrificanti” i loro sorrisi puliti e i loro volti sbarbati.Il problema generale dei biopic, palese nel caso di Bukowski/Chinaski ma presente in ogni storia ricostruita dagli studios americani, è che Hollywood ha dei suoi canoni ben precisi e delle regole da seguire alla lettera. Rappresentare appieno la roca e grezza sporcizia della vita di uno scrittore, il suo mondo interiore e la sua lotta perché un’opera letteraria veda la luce, non è contemplata fra le linee guida del perfetto lavoretto Hollywoodiano.
Charles Bukowski, forse (leggi: quasi sicuramente), avrebbe sputato su “Factotum” e tutta la macchina hollywoodiana delle vite strapazzate, filtrate e confezionate per il grande pubblico accondiscendente; ma c’è a chi è andata anche peggio. Ad esempio c’è “Sylvia”, un quasi imbarazzante biopic su Sylvia Plath interpretata da una Gwyneth Paltrow più confusa che partecipe. Uno dei migliori esempi di come un biopic possa focalizzarsi sui dettagli tralasciando le cose importanti, e pretendere di raccontare una vita in pochi episodi senza comunicare nulla della vita artistica del soggetto in questione. Una pellicola senza nerbo, scritta e diretta senza tener conto della poetica della Plath, della sua vita e del suo processo creativo, e si concentra più che altro sulla sua morte. Non a caso marito e prole della Plath accusarono la produzione del film di aver parlato solo del suo suicidio e non della sua vita.Ci sono alcune pellicole sulle vite degli scrittori di cui non scrivo perché in qualche modo fuori dai canoni del biopic (ma non da quelli Hollywoodiani). Ad esempio, nonostante la follia e la disperazione di Virginia Woolf descritta ne “Le ore” di Michael Cunningham si siano tramutate in un vestito largo, una protesi nasale e una parrucca vagamente spettinata per esigenze di scena tralasciando completamente il contenuto della storia – interpretata dalla pur brava Nicole Kidman – lascio fuori il film “The Hours” perché, più che un biopic, è un film tratto da un romanzo che include una parte di ricostruzione di una giornata della vita di Virginia Woolf, quindi non vale. Un altro grande escluso – stavolta meritevole – è “A sangue freddo”, tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote e incentrato completamente su di lui: un po’ perché Capote, oltre che scrittore, era anche un autore Hollywoodiano, un po’ perché il film racconta solo il periodo in cui Capote decise di scrivere il romanzo e strinse un intenso rapporto con l’autore della strage di cui stava scrivendo. *Ci sono tanti film-biografia sugli scrittori e sulle loro vite che sono belli, originali e ben fatti, o magari anche brutti, ma lontano dai fasti della Hollywood fine a sé stessa che non imbruttisce, ma commette un peccato ancora peggiore: appiattisce, livella, mediocrizza tutto quello che tocca dietro una patina di compitino perfettino che non piace a nessuno, se non (forse) solo agli americani.
* A tal proposito, se non avete mai letto “A sangue freddo” fatelo, è bellissimo.
Daniela Montella