Massimo Gramellini è uno di famiglia per un gran numero di italiani. Dopo aver letto “Fai bei sogni“, l’ultimo romanzo del vice direttore de La Stampa, ho capito che questo sentimento di affetto e fiducia deve essere per forza reciproco.
A casa mia Gramellini è, come dicevo, una figura famigliare, quasi fosse un cugino. Quando c’era ancora “Lo Specchio”,il sabato mattina, appena rientravo da scuola, coltivavo il rito di andare per prima a leggere la sua risposta settimanale ai “Cuori allo Specchio”. Negli anni dell’adolescenza, Massimo deve avermi dato inconsapevolmente tanti buoni consigli sentimentali (Grazie, Massimo!).
Da anni, naturalmente, “Il Buongiorno” del giornalista torinese è un appuntamento fisso per tutta la famiglia, tanto che da quando non abito più con i miei genitori, sono rare le telefonate infrasettimanali che non contengano la frase “Hai letto Gramellini oggi?“.
Ho quindi deciso di leggere “Fai bei sogni” per conoscere meglio e dare un volto più preciso ad una voce che quotidianamente ascolto, e che mi trova d’accordo con il 99,9% delle sue affermazioni. Ma è un romanzo? È una lettera aperta? È un diario? No, è una confessione. Gramellini risponde all’affetto e alla fiducia del suo pubblico raccondandoci una storia personale, “la storia dei tentativi che ho fatto per tenere i piedi per terra senza smettere di alzare gli occhi al cielo“.
Se non fosse scritto con tanta spiazzante sincerità, e da una persona che ho imparato a stimare, potrei accusare questo romanzo di essere scritto in modo furbo, e in effetti lo è, ma alla maniera di Gramellini.
Il sentimentalismo e il buonismo di Gramellini, che tanto fanno presa su un certo tipo di pubblico (e fanno storcere il naso all’altra metà), sono sempre dosati e soprattutto controbilanciati da un’ironia spesso dissacrante e da un cinismo divertito. Questa ricetta è il risultato di tanti anni di apprendistato, resosi necessario perché “Nello stomaco di tutti galleggia un’ingiustizia che abbiamo subito e che consideriamo inaccettabile. La prova dell’inesistenza di un disegno superiore che, se ci fosse, non avrebbe mai potuto permetterla. Per sopravvivere al dolore siamo stato costretti a costruirci una corazza di cinismo che ci protegge dalla verità.”
Pagina dopo pagina, devo ammettere che le difese del lettore scettico e disincantato vanno un po’ a farsi benedire, e ci si ritrova a tifare in modo del tutto parziale per quel ragazzino tifoso del Toro. Gramellini, con molta buona volontà, ci racconta quindi la sua personale ingiustizia, il dolore, gli interrogativi, gli incontri, gli addi e le strategie di cinica sopravvivenza che ha adottato, con più o meno successo, nel corso della sua vita. Una confessione, sincera e gramellinisticamente furba, che il giornalista condivide con noi, il suo vasto pubblico di affezionati lettori e cugini virtuali.
Consigliato a chi: ha subito un lutto e vuole regalarsi un sorriso disincantato, a tutti quelli che hanno voglia di conoscere meglio un “amico”
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