Fair game narra fatti realmente accaduti e i riferimenti sono diretti ed espliciti. É la storia di come gli USA, guidati dal petroliere-presidente Bush e dai suoi amici, hanno promosso la seconda guerra contro l’Iraq sulla base di false prove, trascinando altri paesi seguaci. Il film è tratto dai libri dei diretti protagonisti: “The politics of Truth” dell’ex ambasciatore USA Joseph Wilson (interpretato da Sean Penn) e “Fair Game” scritto da sua moglie Valerie Plame (Naomi Watts), agente segreto sotto copertura della CIA. Entrambi i coniugi si sono ritrovati a lavorare sul dossier relativo alle armi di distruzione di massa in Iraq. Entrambi, insieme a molti altri dirigenti della CIA, si erano persuasi che l’Iraq non avesse armi di distruzione di massa. Ma a quel tempo il presidente Bush e il suo vice Cheney si erano convinti dell’opportunità di scatenare una guerra, motivandola con il presupposto che quel paese stesse lavorando alla costruzione di armi atomiche.
Quando l’ex ambasciatore Wilson si rese conto della manipolazione che stava avvenendo denunciò tutto dalle colonne New York Times. Per rappresaglia alcuni dirigenti della Casa Bianca rivelano a mezzo stampa che sua moglie era un’agente segreto. Di fatto esponendo la donna, i suoi familiari e tutti i suoi contatti a rischio della vita. Questo evento mette in crisi la stabilità dei protagonisti e del loro rapporto. Improvvisamente si rendono conto di come l’ambiente sociale che li circonda sia fortissimamente ostile, abilmente aizzato dai media che soffiano sul fuoco della guerra, pronti a rompere le ossa a chiunque osi opporsi, seppur nell’interesse del proprio paese e della verità. E’ importante ricordare che nessuno dei due protagonisti è minimamente mosso da sentimenti pacifisti o umanitari, essendo due alti dirigenti delle istituzioni che si prefiggono l’unico obiettivo di difendere l’onorabilità borghese e capitalista delle istituzioni repubblicane che servono. Questo elemento fa capire in che specie di gorgo iperliberista e criminale si è arenato il governo globalizzato del pianeta. Il film non omette di citare che uno dei documenti patacca in base al quale si era costruita la montatura delle armi di distruzione di massa dell’Iraq era di provenienza italiana, (il governo allora era guidato da Berlusconi) ed anche questo dettaglio costituisce un segno dello stato della nostra “democrazia”.
Nelle interviste rilasciate dal regista e dai produttori, e citate nel press book del film, si fa un ossessivo riferimento al fatto che il film non è politico, ma prevalentemente incentrato sulla storia umana dei personaggi. Non è vero. La descrizione del conflitto tra i personaggi è tratteggiata con chiarezza ma non è il nucleo centrale del film. Fair game è, forse contro la volontà del regista e dei produttori, fortemente politico. E questo è bene. Ma con l’aria che tira si temeva, forse, che un film di forte ispirazione politica potesse respingere il pubblico. Va detto, invece, che è un film niente affatto noioso, girato con ritmo veloce e avvincente, interpretato in maniera realistica e asciutta da bravissimi attori, senza inutili gigionerie hollywoodiane (almeno così appare nella versione originale non doppiata).
Quando, al termine della proiezione, si pensa che due persone normali hanno messo in gioco le loro vite borghesi e yankee per non arrendersi alla Menzogna Unica (ormai siamo oltre il Pensiero Unico) fa tristezza pensare che in Italia persino tutti i sedicenti comunisti (ma proprio tutti), che sedevano in parlamento (e che dovrebbero essere i titolari della lotta all’imperialismo statunitense), non sono stati in grado di opporre un’eguale fermezza alla guerra in Afghanistan (ed in passato a quella in Serbia). Ed ora si interrogano sul perché le percentuali di gradimento dei loro partiti assomiglino così tanto alle concentrazioni omeopatiche. Sarebbe un buon segno che questo film staccasse più biglietti di quanti voti quei partiti raccoglieranno alle prossime elezioni.
Pasquale D’Aiello