Ma soprattutto, leggendo un passo simile, si capisce proprio che Giordano non è tagliato per tale attività:
Se vincessi il timore di offendere e ne domandassi ragione alla guida, senz’altro mi risponderebbe che ai palestinesi non viene data la possibilità di creare alcunché di stabile. Se, invece, interrogassi uno dei molti antipalestinesi residenti a Beirut — ce ne sono a volontà e per ogni confessione, basta scegliere —, direbbe che loro sono fatti così, che campano da parassiti. Quando si parla di Palestina, per ogni domanda vengono offerte due risposte antitetiche, così noncuranti l’una dell’altra, così inconciliabili, da farti sorgere il dubbio che, dopo gli innumerevoli travasi e rovesciamenti, la verità sia andata perduta.E vincilo il timore, cazzo, e domandale le ragioni, interroga i tuoi interlocutori, non puoi stare come un babbaleo lì in silenzio e offrirci, dipoi, una deduzione che a) avresti potuto fare anche da casa; e b) sapevamo fare da soli noi lettori.
Comunque, nel capoverso finale, il Giordano mi ha fatto ridere, involontariamente, ma è già qualcosa.
Quando scoprii del massacro di Sabra e Shatila avevo ormai ventisei anni. Come molti della mia età, recuperai quel pezzo di storia grazie a un film di animazione, Valzer con Bashir, che all’inizio mi attrasse soprattutto per la sua forma originale. Al termine del lungometraggio, i disegni lasciano improvvisamente spazio alle fotografie scattate nel campo dai primi osservatori che vi entrarono. Mostrano corpi lacerati, seminudi, nella postura di chi implora pietà. Ricordo che uscii dal cinema infastidito da quell’irruzione di realismo dentro un film così aggraziato e implicito, la trovai ricattatoria, un pugno nello stomaco che il regista Ari Folman ci sferrava gratuitamente. Ho cambiato idea. È grazie a quella sequenza cruda che ho spinto la mia curiosità fin dentro il campo di Sabra e Shatila, solo per ascoltare altre testimonianze atroci, per vedere un uomo commuoversi anche l’ennesima volta in cui rievocava i suoi fratelli e la notte in cui fu inseguito con un’ascia. In mancanza di giustificazioni più profonde, di retroscena sensati cui affidarci, non si può che contare sulla riproposizione dell’orrore, sui compleanni osceni della tragedia, per tenere vivo nella memoria ciò che accadde, ancora e ancora.Vi ricordate il Guzzanti-Tremonti de «Ho cambiato idea»? Ecco.