Fallire in partenza le riforme della giustizia

Creato il 22 giugno 2013 da Retrò Online Magazine @retr_online

Che la giustizia in Italia non funzioni, o meglio, funzioni male, è opinione assodata: dai comuni cittadini agli esperti del diritto, fino

Foto CasteFoto, licenza CC BY-NC

all’attuale Parlamento – e dunque al governo – ciascuno è concorde nell’affermare la negatività dello status quo attuale, e tutti desiderano, in qualche misura, modificare il funzionamento dell’attuale sistema-giustizia. In definitiva, quel che viene invocato è il mancato raggiungimento del “giusto processo”, un principio cardine sancito addirittura in Costituzione (all’articolo 111), ma molto spesso frainteso perfino nella sua definizione base.

Per “giusto processo”, in effetti, non si intende il processo che arrivi a una decisione “giusta”, ma soltanto il processo che garantisca il rispetto delle regole e dei principi che lo reggono. Questa non è una distinzione da poco nell’Italia amante della cronaca, sempre pronta a discutere delle sentenze e mai sazia di colpevolezza: un’abitudine sbagliata eppure così radicata, quella di discutere il potere giudiziario, che porta solo ad inutili guazzabugli e discussioni, lavoro di chi non sa parlare d’altro e molto spesso nemmeno di questo.
Il processo che giunge a conclusione, infatti, seppur nei tempi biblici tipici del nostro sistema, offre per tutta la sua durata il rispetto una serie di garanzie inalienabili ed un procedimento lineare rispettoso di ogni parte e sufficientemente equo. Tripartito, per di più (in primo grado, appello e Cassazione), sicchè la decisione del primo grado, seppure immediatamente efficace, è suscettibile di essere modificata almeno due volte, nel merito della questione e nell’applicazione del diritto, ed eventualmente di nuovo nel diritto.
Si può ben sostenere che, giunti a sentenza, difficilmente essa sarà “ingiusta”: al massimo, verrà percepita come tale.

Il vero problema si pone nella circostanza più frequente di mancato rispetto degli obblighi imposti alla giustizia dalla nostra Costituzione, cioè, in breve, quando il processo dura troppo e non ne è rispettata la sua “ragionevole durata”.

Anche questi termini vengono spesso usati a caso, senza pensare ad una definizione appropriata: cos’è la “ragionevole durata”? Quando si può dire che la durata di un processo sia “ragionevole”?
Si potrebbe ben sostenere che in un ipotetico Paese che non ha mai offerto ai propri cittadini le garanzie che noi diamo per scontate in un processo, la “ragionevole durata” possa anche essere di pochi minuti soltanto: un processo sommario, per direttissima. I processi del periodo del Terrore in Francia potevano essere definiti di “ragionevole durata”, per la mentalità dell’epoca. E come dar torto a questo, se duravano pochissimo!
La vera questione che andrebbe posta a chi si riempie la bocca di termini che non conosce, è che la ragionevolezza della durata dipende ed evolve a seconda delle garanzie e dei diritti concessi alle parti, nonché a seconda dell’ampiezza dei poteri del giudice e della discrezionalità che egli ha nell’usarli. Un procedimento in cui il giudice può fare quello che vuole -perquisire, imprigionare, investigare da solo senza rendere conto a nessuno- e in cui le parti non possono nemmeno difendersi è ovvio che avrebbe una durata infinitesimale, “ragionevole”, per dirla usando un termine volutamente sbagliato. Ma sarebbe “giusto”, almeno secondo i dettami Costituzionali? Certamente no.
Non sempre la lunghezza di un processo è dunque un punto negativo. Chi dei nostri politici e legislatori, d’altra parte, potrebbe permettersi di innalzarsi fino ad attaccare Montesquieu, per il quale un sistema processuale lungo era buono, perchè sintomo di garanzia per l’imputato?

Ma nemmeno un sistema “troppo” lungo è rispettoso delle parti. Perchè il desiderio di giustizia è un impulso irrefrenabile dell’essere umano, ancor più se, come accade in Italia per i più disparati fattori, questo è naturalmente portato al litigio e al contenzioso (tanto che, per fare un esempio, il numero di processi nel 2008 in Italia erano 3,2 milioni per quelli penali e 5,4 per quelli civili: un numero enorme, soprattutto se raffrontato all’esiguità della popolazione italiana, stabile sulle 59 milioni di unità). Questo desiderio di giustizia che la Costituzione certamente considera quando parla di “ragionevole durata” va rispettato. Anche perchè, come tutti sapranno, esiste in Italia l’istituto della prescrizione.
Ed è proprio qui, al termine di questo lungo ragionamento e avendo ben presente quanto detto prima, che dovrebbero entrare in gioco le varie riforme che innumerevoli governi hanno cercato di varare, senza alcun successo.

L’inefficienza e l’eccessiva durata dei processi italiani viene, nelle intenzioni dei legislatori che si sono susseguiti, imputata a norme sbagliate, macchinose, estremamente burocratiche. E dunque si vogliono cambiare le norme, modificando, per esempio, la durata delle prescrizioni, o riducendo le garanzie offerte. A riguardo della seconda ipotesi, un tipico caso di cui a volte si sente parlare perchè torna in auge è rappresentato dai numerosi tentativi di limitare la libertà del web attraverso provvedimenti che consentano a chi percepisca di essere “diffamato” di ordinare, lui stesso, l’immediata modifica delle frasi incriminati sulle pagine internet, senza passare attraverso il giudice: una evidente limitazione del diritto di difesa dei gestori delle pagine incriminate, che non potrebbero neppure controbattere in un tribunale, ma che sono costretti ad ottemperare alle istruzioni (ovviamente mai imparziali) di qualcuno.

La verità è che non è cambiando le norme che il sistema-giustizia miracolosamente funzionerà a pieno regime. Non solo il rischio è quello di ridurre i diritti concessi alle parti, cosa che già di per sé dovrebbe scatenare un’insurrezione popolare, ma la storia attuale insegna che possono esistere Tribunali assolutamente efficienti anche con queste norme (come quelli di Torino e Trento, due eccellenze in Italia), come ne esistono di assolutamente inefficienti.
Non è compito di questo articolo ricercare le soluzioni che si possono intraprendere – la volontà è semplicemente quella di mostrare quanto di complesso c’è nel sistema-giustizia che sfugge all’occhio del comune (e a volte disinformato) cittadino, il cui voto, però, vale quanto quello di tutti. Per comodità, ne si citerà una, anch’essa molto spesso usata a sproposito: l’informatizzazione.
Molto spesso vista, e neppure troppo a torto, come la panacea di tutti i mali, l’idea in due parole di trasformare le montagne di carte tipiche nei nostri procedimenti in un sistema elettronico rapido ed efficiente, che consenta una ricerca istantanea, è ben considerata da destra e da sinistra. Si sottovaluta però la necessità di sottoporre il personale a un cambiamento notevole, cosa che comporta costi ingenti non solo dati dall’acquisto e dal piazzamento materiale delle nuove tecnologie, ma anche dall’educazione all’uso delle stesse: un procedimento lento, e tanto più difficile da attuare tanto più chi subisce questa modifica ha lavorato a lungo con “il vecchio sistema”.

Insomma, di soluzioni semplici non ne esistono, perchè complesso è l’argomento e complesso è il sistema che si vuole toccare. Quel che sta alla base di tutto, comunque, è una formazione giuridica in molti casi poco efficiente e non adatta a gestire non solo le nuove tecnologie di cui si diceva prima, ma anche la rapidità sempre più incalzante tipica dei nostri tempi, ferma a formalismi inutili e, purtroppo, in molti casi contaminata da una scarsa voglia di fare e da una scarsa organizzazione.
Come in molti problemi, prima di modificare le norme, cioè il sintomo ultimo della malattia, bisognerebbe investigare ab origine quale sia il motivo per cui, alla fine, le cose non funzionano, e ricercarlo nell’educazione giuridica carente e poco moderna, spesso priva di mezzi, di denaro, di serietà. E’ un qualcosa, questo, che si potrebbe rinfacciare anche alla classe politica attuale, formata per la gran parte da laureati in Giurisprudenza che tuttavia sembrano non rendersi conto fino in fondo della complessità dei problemi che debbono affrontare. Finchè non si formerà o non si avrà una classe dirigente sufficientemente duttile e in grado di battersi rapidamente con le sfide sempre più incalzanti di questi tempi veloci, e in grado di scorgere al contempo fino in fondo la complessità delle cose, difficilmente si potrà sperare di risolvere problemi strutturali del nostro paese semplicemente andando a modificare una piccola parte del tutto, e molto spesso, come si è visto, neppure quella giusta.

Articolo di Giacomo Conti


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