Chiamatela "deformazione professionale", ma ascolto volentieri consigli di lettura e di cucina. Quelli in tv, quelli degli amici, quegli degli sconosciuti quando mi ritrovo in libreria con un volume tra le mani a leggerne l'incipit, indecisa se comprarlo oppure no. La persona che mi è accanto guarda caso l'ha letto e rapita mi descrive le sensazioni che ha provato. Mi sono ritrovata spesso a segnare su un pezzo di carta, un fazzoletto, a volte anche sul braccio il titolo di un libro che passava in radio, mentre ero imbottigliata nel traffico, oppure a segnare dosi di ricette di dolci, focacce e primi piatti sulle buste del pane fresco, o sul retro delle confezioni degli yogurt, quando per la fretta non avevo il tempo di cercare il cellulare o la fortuna di beccare al momento giusto un taccuino.
In tutti i romanzi, quindi anche in questo, un riferimento al languore lieve, alla fame brutale (quella che quando arriva non vuoi sentire ragioni, e anche un minestrone diventa un'apoteosi per le tue papille gustative) o al cibo non può mancare. A conferma di questo, riporto una parte dell'incipit, proprio quella in cui Lupetto si ferma a gustare lo schizzozibibbo. La descrizione di come il chicco d'uva si arrende al peso della mandibola e alla lama affilata dei denti, e quell'onda di nettare dolce che invade la bocca, rendono perfettamente la sensazione che si prova mangiando questo frutto tanto amato.
A metà circa del tragitto dello scarpagnamento mi fermai a una vigna e rubai un grappolo di shizzozibibbo. Ogni chicco era gande come la mia testa (esagero), un grappolo di teste di me stesso, ognuno cha gridava non mi mangiare. Per gustar meglio il bottino tirai fuori dalla tasca una crosta di paneterno. Niente, nella vita, ho incontrato che fosse duro come quella crosta. Neanche i denti di una mietitrebbia, o di un caimano famelico lo avrebbero scalfito. La crosta sembrava forgiata nell'acciaio. La mollica aveva la consistenza di certe pietre, porose ma solidissime. [...]
Era un momento poetico, ma allora io facevo fatica a distinguere i momenti poetici tristi da quelli allegri, quindi quando sentivo arrivare un attacco di poesia era un pò come quando si mobilita la budella e segnala e crepita prima della liberatoria, perciò quando sopraggiungeva il crampo dell'ecloga o del sonetto o dell'imperdibile istante, io ci mangiavo su.
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Divaricai la mandibola come se volessi ingoiare l'orizzonte, mangiai Monte Mario, la stazione dei treni, un pezzo di strada cantonale e poi con rumore di tritura, un pezzo di pane. Si chiamava paneterno, perché poteva durare mille anni e si conservava sempre buono.
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Allora crac fece il pane doc sotto i miei canini e bau fece Fox lontano e ciac il sugo dello schizzozibibbo e non saprei sintetizzare il rumore del fiume ma il sole si alzò ancora c'era odore di una certa felicità irripetibile. Mangiai quattro chicchi e mi esplosero nella trachea, perché se un chicco di schizzozibibbo non ti va di giangione, cioè di traverso, allora vuol dire che non è buono, il chicco deve essere tutto compresso e turgido di sugo e zucchero e invidia d'ape, l'esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come una bomba, uno sborramento di gusto, e lo zibibbo va su per il naso e nei bronchi e fino nel pancreas, e tu tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù un altro chicco per godere di più. Se non lo avete mai provato, vi manca qualcosa.
Adoro l'uva, e la sensazione che "un chicco tira l'altro" che provo quando la mangio, in quei pomeriggi d'estate caldi e luminosi, è la stessa descritta nel libro. Questa esplosione di gusto mi ha fatto venire in mente la ricetta di una torta all'uva che ho letto tempo fa su una rivista che temo di aver buttato via. In rete però ho scovato la ricetta della schiacciata all'uva, dolce tipico toscano, dal sapore dolce e leggermente aspro.
Ecco il link della ricetta. Magari aspettiamo la fine dell'estate per provarla ;-)