C’era una volta un mondo pacifico e rurale, governato dalle leggi della natura. In questo mondo, in un paesino della campagna egiziana sperduto nel tempo e nella geografia, vivevano Sakina, suo marito Zaghloul e i loro due figli.
Abitavano in una casa umile e modesta, corredata all’esterno da una mastaba, una panca in muratura, che ospitava durante il giorno i vari componenti della famiglia. In diverse ore della giornata li si trovava lì, appollaiati a guardare passare le giornate e la vita.
Avevano tutti fame i componenti della famiglia di Sakina, perchè il capofamiglia preferiva perdere tempo appresso ai funerali delle persone del paesino piuttosto che lavorare. Lavoro che poteva voler dire, ad esempio, prestare servizio presso i ricchi signori della zona. Come quel vedovo che abitava in una grande casa che era l’invidia di Sakina. Perchè questa casa aveva le piastrelle decorate, grandi armadi e la cucina sempre piena, che così i suoi figli non andavano a cena digiuni. Che poi il giorno dopo, se avevano fame, il più piccolo le si avvinghiava alla gamba, lo stomaco brontolante, senza forze.
E se anche trovava lavoro, si stancava presto Zaghloul, perso a rincorrere i ricchi giovani universitari che tornavano al paesino per le vacanze. Perso dietro ai loro discorsi che parlavano di un altrove diverso, forse migliore. Discorsi che stimolavano in lui riflessioni sul senso della vita, della sua vita, dei perchè universali.
Non c’è una vera trama in Fame (trad. dall’arabo di B. Longhi, e/o 2014), questo piccolo, breve, romanzo firmato dallo scrittore egiziano Muhammad Al-Busati, appartenente alla famosa Generazione letteraria degli anni ’60, e morto pochi anni fa.
I pochi eventi narrati scivolano l’uno dopo l’altro, placidamente, quasi con grazia. Il romanzo è pervaso da un’atmosfera tranquilla e rilassata in cui ogni tanto al-Busati inserisce un guizzo ironico che dà un po’ di brio alla narrazione, altrimenti abbastanza piatta. I personaggi di Fame infatti non si evolvono, rimangono a guardare, spettatori di una condizione, quella dei diseredati della Terra, che non cambierà. Almeno nel romanzo.
L’atmosfera evocata in Fame mi ha ricordato quella dell’Alto Egitto raccontato da Baha Taher in Zia Safiya e il monastero. O dal sudanese Tayyeb Salih in quel piccolo, brillante gioiellino che è Le nozze di al-Zain.
Personaggi semplici e modesti, ma capaci di esplodere in grandi risate, si muovono sullo sfondo dei paesini rurali dell’Egitto e del Sudan, non ancora toccati dalla globalizzazione e dallo sfacelo dell’uomo degli ultimi decenni.In Fame però, al-Busati non raggiunge i picchi di maestria di Taher e Salih.
Un piccolo romanzo come Fame, che è stato selezionato nella shortlist dell’IPAF nel 2009, ci riporta indietro in un tempo in cui al-Busati sembra volerci dire che tutto era più difficile, ma anche più semplice.
Esisteva davvero quell’Egitto magico, popolato da fantasmi dei morti di un tempo che fu, ricchi avari, servette sciocche, uomini che masticavano pagliuzze tra i denti, donne dal ventre prolifico e dalle ruvide fantasie, bimbi scapigliati e generosi?
O era, più prosaicamente, un tempo vagheggiato dalla penna di al-Busati?
Fame (جوع) è stato pubblicato in Libano da Dar al-Adab nel 2007; è stato tradotto in inglese e francese.
Oltre a Fame, in italiano sono stati tradotti dello stesso autore: Casa dietro gli alberi, trad. di B. Longhi, Sperling&Kupfer, 1997 e Frassinelli, 2004; Altre notti, trad. di P. Zanelli, Jouvence, 2003.
Credits foto copertina: An Egyptian woman talks with her kids playing by the window in Nasr City, Cairo, Egypt, on Oct. 17, 2014. Photo by @Panchaoyue // @Every Day Egypt