Family Life

Creato il 02 luglio 2012 da Eraserhead
Documento sociale redatto da Ken Loach nel 1971, quel Ken Loach famoso per il suo impegno fuori e dentro il cinema nei confronti dell’attualità che sostanzia il mondo contemporaneo. E non stupisce allora che Family Life, nonostante sia uno dei suoi primissimi lavori, tratti argomenti scottanti per l’Inghilterra di quell’epoca. La storia di Janice si incastra all’interno di quadri sovrastanti che mirano all’appiattimento della personalità; come vedremo tra poco ogni passaggio del film mira a sottolineare questa tendenza al conformare, l’ammissione di strade alternative è negata: si deve seguire il percorso che il sistema impone.
Già l’architettura del luogo non aiuta, una schiera di casette in serie tipicamente inglesi, monotone, scolorite, noiose. Il problema è che all’interno di queste case gli eventi seguono il grigiore paesaggistico, anzi nella famiglia presa in esame da Loach il colore che aleggia tende al nero come i capelli sempre ordinati della madre. È un qualcosa che si avverte: le imposizioni casalinghe di un focolare totalmente matriarcale (come viene fatto intendere la madre proviene da un ceto più elevato del padre) non sono in superficie, non sono vere e proprie punizioni, piuttosto lavorano sottotraccia puntando all’allineamento dei valori ritenuti giusti, ma soltanto dai genitori.
È certamente una relazione dispotica, con l’aggravante di essere subdola ed irreversibile. Quello che viene deciso per Janice non asseconda il suo volere ma quello della madre che decide per il suo “bene”.
L’aborto obbligato che dà inizio alla patologia mentale assume un significato che va oltre il gesto, non è tanto da condannare l’atto in sé, quasi comprensibile vista la giovane età della protagonista, il problema è che con l’aborto viene soffocato un gesto di ribellione come è l’atto sessuale fuori dal matrimonio, onta ritenuta troppo grande per una “buona” famiglia.
Fuori da queste abitazioni monocorde i fatti seguono lo stesso andazzo. Loach mostra infatti che durante un consiglio d’amministrazione dell’ospedale viene discussa la posizione del giovane psichiatria che aveva in cura Janice. In poche battute viene liquidato dicendo che i suoi metodi, metodi di matrice psicanalitica e quindi votati all’esposizione e al dialogo, non sono ben accetti, e gli viene preferito un collega dai protocolli di ricerca più standard come la terapia elettroconvulsivante, altresì nominata elettroshock.
Famiglia che schiaccia a sua volta schiacciata da una società inquadrata, Janice viene sepolta da questo peso immane, e a parte le parentesi (un po’ didascaliche) in cui afferra qualche bagliore di libertà (l’amico e la sorella), il baratro che si spalanca sotto i suoi piedi la conduce nella follia, alienandola, “il tempo non esiste”, spersonalizzandola, “ecco a voi un caso clinico molto interessante”.
Questo è quanto.
E sarebbe tanto se non fosse che il garbo british dell’opera attenua il comparto emotivo. Anche quando si alzano i toni, non si perde mai quella compostezza che caratterizza l’opera. Più che un’adesione al voluto contegno materno Loach appare irrigidire la vicenda e raffreddarla lì, in quell’epoca dal quale si evincono tutti i mali che la affliggono, ma da dove il male della piccola Janice è troppo moderato per poter travalicare lo schermo.
Dunque, se il ritratto personale non incide, quello globale invece trova riscontro positivo, e allora val la pena domandarsi: chi sono i veri pazzi?

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