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Fanatismo politico-religioso ed eccessiva tolleranza dell’Occidente

Creato il 08 settembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
640px-Portrait_Caliph_Abdulmecid_IIdi Michele Marsonet. E’ terribilmente difficile ragionare in modo semplice quando si affrontano temi complessi. Il rischio è sentirsi accusare di superficialità o, peggio, di banalizzare problemi che invece richiedono analisi profonde e rivelatrici. Eppure ritengo che la semplicità sia spesso utile, soprattutto in presenza di eventi drammatici come quelli che dominano la scena internazionale in questi giorni.

Molti hanno notato che non si deve impostare la battaglia contro l’ISIS alla stregua di una guerra di religione poiché non lo è. I miliziani del califfato sterminano certamente i cristiani, ma allargano la strage anche ai musulmani considerati eretici o apostati poiché adottano un’interpretazione dell’Islam diversa dallo loro. Tutto vero. Presentare la battaglia di cui sopra come una sorta di rivincita cristiana sarebbe, oltre che assurdo, controproducente.

Partiamo allora dalla certezza ormai acquisita che molti fanatici del califfato provengono proprio dalle nazioni occidentali. La maggioranza è formata da figli o nipoti di emigrati islamici che hanno ottenuto la cittadinanza nei Paesi in cui sono approdati da tempo. Meno consistente – ma senza dubbio significativo – il numero dei convertiti, vale a dire persone per lo più molto giovani che hanno aderito alla fede islamica provenendo dal contesto culturale occidentale.

La sorpresa di ritrovarsi con i fanatici per così dire “in casa” è stata grande ma, a ben guardare, risulta immotivata. E qui entrano in gioco concetti importanti quali “multiculturalismo” e “tolleranza”. In linea teorica si tratta di nozioni nobili e degne di essere sostenute, ma con un caveat essenziale. La loro nobiltà sopravvive se, e solo se, vengono applicate nella pratica in maniera equilibrata. Intendo dire che, esattamente come noi, gli immigrati sono portatori tanto di diritti quanto di doveri, mentre in realtà i fautori del multiculturalismo tendono a insistere sui primi scordando del tutto i secondi.
Gli immigrati hanno il diritto di conservare la proria identità a certe condizioni. Non possono pretendere di costituire isole del tutto estranee al contesto territoriale, sociale e culturale che le circonda. E invece proprio questo è accaduto senza che le autorità dei vari Stati occidentali coinvolti, pur percependo il pericolo, ne impedissero la diffusione di fatto. A Londra si può anche trascurare la vituperata periferia. Basta andare nella centralissima Edgware Road per sentirsi in un Medio Oriente nel quale la cultura occidentale è pressoché assente.

Si è consentito per decenni tutto ciò, tollerando (nel senso peggiore del termine) che i giovani frequentassero soltanto scuole islamiche e che molte moschee diventassero sedi in cui si predica l’odio contro ogni manifestazione di diversità. Perché, dunque, stupirsi dei frutti avvelenati che una simile cecità ha prodotto? Che c’è di così orribile nell’esigere per legge che i discendenti degli immigrati siano esposti sin dalla prima infanzia alle nozioni basilari della cultura occidentale? Ed è davvero rivoltante chiedere loro, se non l’apprezzano in toto, di ritornare ai Paesi d’origine dove possono applicare quotidianamente i dettami appresi dai predicatori nelle moschee? Per molti questa è intolleranza, mentre dal mio punto di vista è semplice buonsenso, in grado di giovare sia a noi che a loro.

Solo una nazione che ha smarrito la propria identità può adottare il multiculturalismo nella sua accezione peggiore, destinato alla lunga a causare la dissoluzione di quella stessa identità. Purtroppo si tratta di una tendenza assai diffusa. Pur in un contesto diverso anche il celebre “melting pot” americano ha il fiato sempre più corto. In certe aree, peraltro assai vaste, di New York o di Miami non è possibile parlare inglese poiché gli abitanti proprio non lo conoscono. Se per sventura uno non sa lo spagnolo deve arrangiarsi come può.

Tuttavia quel caso non è paragonabile alla diffusione a macchia d’olio del fondamentalismo, giacché da noi la matrice culturale islamica viene spesso vissuta in un modo così esclusivo da impedire il dialogo con gli “altri”, conducendo alla fine gli adepti a ritenere che la violenza sia l’unico strumento utilizzabile per prevalere. Si è ritenuto per lungo tempo che i segnali – pur evidenti – fossero riconducibili a casi isolati, e il risveglio è stato inevitabilmente brusco. Il problema è capire se siamo ancora in tempo ad arginare il fenomeno.

Si fa presto a dire che l’ISIS dev’essere annientato, quando poi si scopre che è già presente in forze nelle nostre città. E, per quanto riguarda in particolare l’Italia, ora giunge pure la consapevolezza (tardiva) che le continue ondate di immigrati che arrivano sulle nostre coste portano, oltre ai disperati in fuga da carestie e guerre, anche i terroristi che approfittano delle traversate via mare per mettere piede sul continente confondendosi tra i profughi. Il discorso è impopolare in vasti settori dell’opinione pubblica italiana, ma dovrebbe infine essere affrontato con serietà per evitare guai peggiori.

In sintesi, la tolleranza è un’ottima cosa ma non può essere del tutto priva di limiti. Come del resto il multiculturalismo, a patto che non diventi una pura e semplice “cultura della resa”. E come il pacifismo, a condizione che non sia unilaterale rifiutando di guardare in faccia la violenza praticata da altri.

Featured image, Abdülmecid II is the last Caliph of Islam from the Ottoman dynasty.


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