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Per uno sguardo a volo d'uccello sul festival, partiamo dalla Cina. Che festeggiava il 60° della fondazione della RPC, e questo ha prodotto una quantità di film “patriottici”: ora mediocri, come “May 12th”, non selezionato per Udine; ora discreti, come “The Message” di Chen Kuofu e Gao Qunshu; ora buoni, come “The Founding of A Republic” di Han Sanping e Huang Jianxin (sul quale vedi recensione a parte) o “City of Life and Death” di Lu Chuan, tragica rievocazione del Massacro di Nanchino a opera dei giapponesi, che per concezione visuale - concretizzata nella bella fotografia in b/n di Cao Yu - mi sembra ricordare il cinema sovietico del vivace periodo fra i '50 e i '60 (Čuchraj, Kalatozov).
Altri buoni prodotti cinesi sono “Sophie's Revenge” di Eva Jin (divertente commedia sentimentale di stile hollywoodiano con una modernità di linguaggio prettamente asiatica, dove un'ottima Zhang Ziyi si prova coraggiosamente e con successo in un ruolo comico), nonché “Wheat” di He Ping e “Little Big Soldier” di Ding Sheng. Questi ultimi recuperano con intelligenza il kolossal-wuxiapian dal punto di vista degli antieroi (e in “Little Big Soldier” c' è Jackie Chan!).
Passiamo a Hong Kong, salutando il fatto che un cinema negli ultimi anni un po' appannato ritorna con una bella selezione (sarebbe stata ancora migliore se avesse compreso l'eccellente thriller “Overheard” di Felix Chong e Alan Mak). Un piccolo capolavoro è “Dream Home”, slasher crudelissimo - alla proiezione uno spettatore è svenuto - di Pang Ho-cheung. Il tema è il febbrile mercato immobiliare hongkonghese. Al di là dell'efferatezza e dell'inventiva degli omicidi, il film si raccomanda per la logica sottesa (ovvero il motivo dei delitti compiuti dalla protagonista), che sarebbe piaciuta a Bertold Brecht.
“Gallands” di Derek Kwok e Clement Cheng è un omaggio alle vecchie glorie del kung fu, che lo interpretano; peccato che alcune scene (non di combattimento) siano un po' goffe. Anche il pomposo “Bodyguards and Assassins” di Teddy Chen rende omaggio ai vecchi wuxiapian; a Udine è piaciuto molto, ma scene come quella di Leon Lai che con vera maestà affronta una miriade di nemici su uno scalone colpiscono in particolare chi è digiuno di quei vecchi film - in cui erano ordinaria amministrazione. Restiamo in area kung fu con “Ip Man 2” di Wilson Yip. Sono eretico se dico che è assai più bello del primo episodio? Più modesto e per questo meno pretenzioso, ci offre con semplicità una bellissima serie di scontri. Del resto, accanto a Donnie Yen c'è il grandissimo Sammo Hung: il combattimento fra i due sul tavolo è uno di quei momenti cinematografici che non si scordano più.
Mentre non ho avuto ancora modo di vedere “Fire of Coscience” di Dante Lam, “La Comédie Humaine” di Chan Hing-kai e Janet Chun nonostante dei buoni momenti è poco organizzato, anche se con una piacevole interpretazione di Chapman To. Menziono infine il toccante “Echoes of the Rainbow” di Alex Law, ritratto della Hong Kong di un tempo dove una famiglia povera lotta per la sopravvivenza. Sia per la definizione delle figure sia per l'eccellente interpretazione, il padre e la madre (Simon Yam e Sandra Ng) stracciano qualsiasi corrispondente americano o europeo.
Da Taiwan, “Monga” di Doze Niu è l'onesto e gradevole ritratto del passato di un quartiere, nonché di un giovane che cresce nella malavita taiwanese - e in puro stile noir si accorge che col tempo gli ideali di amicizia della gioventù svaniscono nel sangue.
Il cinema coreano non è più quello che ci aveva fatto gridare al miracolo in passato, ma resta un ottimo cinema. Il miglior film coreano del festival è “The Actesses”, firmato da quel regista sempre rimarchevole che è E J-yong (“An Affair”, “Untold Scandal”, “Dasepo Naughty Girls”). Si tratta di un falso documentario su una seduta fotografica con sei attrici coreane (autentiche) che recitano se stesse ma allo stesso tempo evidentemente elaborano in modo fictional la propria storia e realtà. Quel che n'emerge è una commedia drammatica di psicologie, un ritratto dell'attrice coreana sul piano sociale, un saggio sulla fotografia. Un film veramente affascinante.
Il film vincitore del premio del pubblico, “Castaway on the Moon” di Lee Hey-jun, realizza con efficacia un'idea semplicissima. Un uomo tenta di suicidarsi e finisce su un'isola deserta del fiume Han che attraversa Seoul. Non sa nuotare - quindi, con la civiltà a un passo, diventa un nuovo Robinson Crusoe. Una ragazza hikikomori (reclusa volontaria) lo osserva col suo telescopio e tenta di comunicare con lui come se fosse un contatto con un altro pianeta. Incantevoli sia l'originalità della concezione sia l'umanità con cui il film dipinge questo doppio ritratto, e quest'incontro fra due differenti reclusi. Nota polemica: è un film che volendo si può realizzare con due lire; il cinema italiano non potrebbe prendere esempio da queste storie invece di continuare a propinarci i soliti compitini di beghe familiari?
La tradizione coreana del film di gangster e poliziotti ritorna con “Running Turtle” di Lee Yeon-woo, gradevolissimo ritratto umano di un poliziotto in bolletta e sfortunato, in crisi con la moglie, che tenta di risollevare le sue fortune catturando per la taglia un terribile latitante. Il ritmo del film è volutamente disteso, nonostante la recitazione concitata dei personaggi secondari, cui si oppone quella deadpan dei due antagonisti. L'interesse coinvolgente del côté umano del film ripaga ampiamente le sue due ore - e rende benaccetta la conclusione alla Frank Capra.
Non dimentichiamo l'horror: il notevole “Possessed” di Lee Yong-joo ha una costruzione molto articolata, in cui l'accaduto si rivela a frammenti che si compongono via via. Il montaggio è brusco e la narrazione mette modernamente in parallelo senza segni distintivi il racconto base, i sogni, i flashback, le visioni, in un'ambiguità forse difficile ma ricca di fascino. Il genere sempre gradito del disaster movie offre un saggio di tutto rispetto con “Haeundae” di Youn Je-gyun, in cui un mega-tsunami si abbatte su Busan, la seconda città della Corea (sede, per inciso, di un importantissimo festival cinematografico). Grande divertimento, infine, con “Woochi” di Choi Dong-hoon, in cui un mago dell'antichità trasportato nella Seoul moderna affronta un'invasione di goblin. E' un film molto piacevole sia nella parte in costume (gustosissima la caratterizzazione del protagonista presuntuoso e del suo aiutante, un uomo-cane) sia nella parte moderna. Una delle cose più apprezzabili è il ritorno, accanto alla computer graphics, a Méliès, alle classiche trasformazioni con sbuffo di fumo. La storia - come ci si può attendere dal regista di “Tazza: The High Rollers” - da un lato sprizza fantasia e umorismo, dall'altro è un po' intricata, non facile da seguire; ma ne vale la pena.
Il Giappone resta nel suo complesso la miglior cinematografia asiatica attuale. Eccezionale “Zero Focus” del maestro Inudo Isshin, che racconta un mistero del 1957 in stile totalmente (citazionisticamente) hitchcockiano: come atmosfere, come soluzioni narrative, come linguaggio (scansioni, stacchi, colore, perfino il commento musicale). Per intenderci, possiamo pensare a “Complesso di colpa” di Brian De Palma; e come in quel film, il peso del passato realizza un grande noir intenso e doloroso. Vivace e originale è “Boys on the Run” di Miura Daisuke, dotato di un particolarissimo umorismo e d'uno sguardo di osservazione attento dentro il suo gusto grottesco. Ottime le figure di contorno: il collega ex pugilatore, il malinconico boss della ditta e soprattutto la prostituta Shiho, bella interpretazione di You (Eshara Yuhiko) che è di per sé una figura interessantissima della scena giapponese.
Inferiore a questo, ma senz'altro grazioso, il film di formazione “Oh, My Buddha!” di Taguchi Tomorowo. Come non adorare, poi, il delirante “The Bugs Detective” di Sato Sakichi? Un ex poliziotto fuori di testa (Aikawa Sho) comprende il linguaggio degli insetti e fa il detective privato per questo mondo, pedinando locuste dongiovanni, trovando le prove dell'adulterio di mariti scarabei; e questo non è che l'inizio. Al di là della storia ultrasfacciata, il film è notevole sul piano dello stile, per la recitazione astratta - quasi epica - dei due protagonisti che viene rispecchiata dalla costruzione astratta e irreale dell'inquadratura.
Non ho ancora visto “Wig” di Tsukamoto Renpei. Del tutto dimenticabile è “The Accidental Kidnapper” di Sakaki Hideo - e fallito, nonostante certe buone idee, “Golden Slumber”, con cui Nakamura Yoshihiro cerca invano di riprendere l'effetto di puzzle narrativo che aveva prodotto l'anno scorso un capolavoro come “Fish Story”.
Passiamo alla Thailandia: un cinema “puro e duro”, spesso attraversato da una vena di follia che può rendere interessanti anche film non riusciti. Non rientra in questa categoria il piacevolissimo “Dear Galileo” di Nithiwat Tharatorn, amabile film giovanilista su due squattrinate ragazze thai in viaggio in Europa (anche a Venezia): ha uno spirito decisamente non da film turistico, restituendo un quadro di complicata amicizia giovanile, sentito e persino toccante, non privo di osservazioni vivaci sul turismo povero e il lavoro clandestino nell'immigrazione. Commovente è “October Sonata” di Somkiat Withuranij, un mélo drappeggiato sopra gli eventi politici di 15 anni di storia thailandese, impreziosito dalla bella fotografia di Kaiwan Kulavodhanotai.
Il cinema thai, si sa, è fecondissimo di horror. Rientra in questo campo il film a episodi “Phobia 2”, migliore del suo predecessore “4bia” visto l'anno scorso: se in quello gli episodi buoni erano due (su quattro - donde la grafica del titolo), qui lo sono tutti e cinque. Interessante, e visivamente sontuoso, anche “Slice” di Kongkiat Khomsiri; mentre invece “Who Are You?” di Parphum Wongjinda, nel quale ritorna la figura dell'hikikomori, contiene delle buone idee (e per forza! La storia è del navigato Prachya Pinkaew) ma le rovina con uno sviluppo dilettantesco.
Per le Filippine, è importante (ma in ultima analisi non del tutto convincente) “The Arrival” di Erik Matti, mentre è divertente “Kimmy Dora”, commedia di Joyce Bernal (sempre una regista da seguire), che si regge su una gustosa interpretazione della pingue Eugene Domingo. Mancava quest'anno Singapore, ed è un peccato, perché la città-stato ha prodotto nel 2009 almeno una commedia deliziosa, “The Wedding Game” di Ekachai Uekrongtham.
L'entry più recente nel panorama del Far East Film Festival è il cinema indonesiano (assieme al suo cugino malaysiano). Viene proprio dall'Indonesia quello che senza tema si può considerare il film più importante del festival: “Identity” di Aria Kusumadewa. Un capolavoro che inizialmente traduce il suo tema drammatico in toni di commedia nerissima (sugli ospedali locali) in confronto alla quale Buñuel è un gattino giocherellone - e partendo da questo instaura una riflessione straziante sull'identità, la povertà e la morte. Si conclude come storia d'amore con un cadavere, con dettagli di vera audacia, al bordo della necrofilia amorosa. Il suo radicalismo sul piano della denuncia sociale è tanto più convincente in quanto sfugge alla retorica.
E' altresì valido e commovente il fluviale “The Dreamer” di Riri Riza, seguito di quel “The Rainbow Troops” che fu acclamato l'anno scorso. Non ho ancora visto “The Last Wolf” di Upi, ma il nome della regista è sufficiente per aspettarsene bene. A questa stregua credo si possa dire che il cinema indonesiano è lanciato per diventare uno dei pilastri del festival in futuro.
Se pensiamo che il festival è stato impreziosito da due memorabili retrospettive, sulle quali manca proprio lo spazio per scrivere, quella dedicata al maestro hongkonghese Patrick Lung Kong e quella (da urlo) sulla casa di produzione giapponese Shintoho, vediamo che il Far East Film 2010 come ogni anno ha mostrato di essere all'altezza della sua fama.
(Il Nuovo FVG)
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