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Farfalle di ferro

Creato il 27 marzo 2014 da Aperturaastrappo

Farfalle di ferro
Domani sarà l’ultimo giorno poi finalmente finirà. Si chiuderanno i cancelli, scioglierò il nastro, appenderò il grembiule al chiodo, qualcuno provvederà a togliergli di dosso la polvere di gesso che mi secca la gola e innervosisce tanto la maestra Iole. Mamma frugherà nelle tasche, un fazzolettino di stoffa di quelli piccoli, un elastico, l’incarto di una gomma da masticare, di quelle verdi e dure che lo zucchero si consuma subito. Se cerca meglio, ci troverà anche un po’ di dolore, quello che mi ha attanagliato le viscere e che mi rendeva le gambe pesanti. Voglio pensare che mamma mi porterà al mare, potrò leggere quanto mi pare, ma se andremo a fare una passeggiata io da qui non ci voglio passare neanche per sbaglio.
-“Certo che ti fa male lo stomaco! Non vuoi mai mangiare nulla il mattino. I sacchi vuoti non si reggono in piedi e la testa non funziona.”- Queste erano le parole di ogni giorno ma senza alzare la voce, grida trattenute per non innervosire papà, poi mi pettinava i capelli sottili e serici e mi accompagnava a scuola. –“A scuola si va comunque a meno che non tu non abbia la febbre”. Aggiungeva quando eravamo già sull’uscio. Ricordo la sua mano nella mia, l’unico contatto tra lei e me, lei era già persa nelle sue preoccupazioni quotidiane ed io ero soltanto una delle incombenze della giornata, la prima.
Non era lontana la vecchia scuola d’architettura fascista, solida e accogliente come una madre austera ma giusta. All’interno del suo cortile fiorivano in un’esplosione di giallo le più belle mimose che io ricordi. Lo scalone interno, lo facevamo di corsa una gara senza vincitori, conduceva al primo piano, alla mia classe. Non avremmo potuto essere più diverse, benché tutte bambine, tutte femminucce provenienti dallo stesso quartiere popolare e popoloso, stessi grembiuli, libri, stessi pensieri? No quelli. No. Al mio banco, il primo, mi sentivo al sicuro, non ero sola. Era lungo il tragitto che io avevo paura. “Eccola anche oggi”- sembrava che ci incontrassimo casualmente, ma io cominciavo a sospettare che in realtà mi aspettasse e venisse fuori dalla stretta traversa, non appena ci scorgeva da lontano. Era alta, più delle altre compagne, un accenno di seno, capelli corti scuri, degli occhiali a goccia che nascondevano l’unica cosa bella della sua persona: il verde degli occhi. Oh, no ecco la fitta puntuale in concomitanza con il sorriso che mi stampavo in faccia al suo saluto. “Ciao” mi sussurrava attraverso i suoi denti storti. Ciao Marcella. Rispondevo io. Non chiedeva neppure più se poteva unirsi a noi per percorrere strada insieme, mi si metteva accanto e mi guardava adorante fino a scuola. Essere bambini è crudele, ti si affollano tante cose in mente che comprenderai quando l’età dorata avrà cominciato a cambiare colore e affiorerà il vile metallo. Marcella puzzava, ma non perché non si lavasse, era il suo odore personale, ne sono certa, come sono certa della nausea che mi prendeva ogni volta che mi si avvicinava, l’avrei riconosciuta tra mille. In classe nessuno parlava con lei, era diversa, distante, spesso rimaneva in silenzio e non aveva nessuna voglia di studiare. All’inizio dell’anno scolastico ci eravamo ritrovate questa nuova, più vecchia compagna, e siccome io sono sempre stata una brava bambina, ero l’unica che le aveva rivolto la parola e non l’avesse trattata come una lebbrosa. I bambini sono crudeli, anch’io sono una bambina.
Così erano cominciati il suo uscire dall’angolo e il suo avvicinarsi con circospezione, ma sempre di più a quello che era divenuto l’oggetto della sua adorazione a colei che aveva strappato il drappo pesante dell’indifferenza e della solitudine. “Brava” disse un giorno la maestra è questo il senso dell’accoglienza e della comunità. Le altre cominciarono a storcere il naso, ma io all’inizio non me ne curai più di tanto. All’inizio.
Mi portava collanine di caramelle, quelle che si comprano dall’ambulante che si fermava dinanzi la scuola con il suo carico colorato e profumato di facili promesse. Dieci lire, venti lire di carie assicurata di ciccia che sarebbe esplosa di lì a poco. Non se la passava bene e credo rinunciasse a qualcosa per sé pur di dare a me quei dolciumi. Erano piccoli gesti all’apparenza insignificanti che dapprincipio non notai nemmeno. Ero una bambina serena, studiosa, bellina. Intrattenevo spesso le mie compagne leggendo loro delle brevi storie o disegnando delle piccole figure che ritagliavano e incollavano sui quaderni, mi ritrovavo con la matita in mano a disegnare anche senza pensarci. Dicevano che le mie figure erano belle, ho sempre amato il bello, e Marcella era brutta.
La distanza tra me e lei fisicamente si accorciava ogni giorno di più, me ne resi conto quando cominciai a svegliarmi con un forte mal di pancia, era provocato dal pensiero che l’avrei rivista a scuola, sentivo come delle farfalle dalle ali di ferro che mi ferivano le viscere. Stringevo forte la mano a mia madre non appena la sua sagoma sottile si materializzava all’orizzonte per poi mettersi al mio fianco. Avrei voluto spingerla, ma senza toccarla, con la mia cartella rossa e rigida come me. La crudeltà è una dote innata che si affina con il tempo, che inconsapevolmente diviene strumento sinistro. Un giorno assieme alla merenda posata sul banco c’era anche un foglietto di carta piegato in due, un foglio di quaderno a quadretti con disegnato un cuore storto che offese tanto il mio senso artistico era il mio nome quello che vi campeggiava dentro. All’esterno del maldestro disegno una frase breve lapidaria, quella che inconsapevolmente sarebbe divenuta l’epitaffio di questa strana vicenda: Mi sono innamorata di te perché…” Avvampai, il foglio mi bruciava le dita. Che cosa significa? Sapevo che era stata lei, lei che non aveva avuto il coraggio di mettere il suo nome accanto al mio. Lei che aveva paura, ma sperava. Io, che avrei ucciso le sue speranze, ora ne ero certa. Certa che quella nota stonata che aveva risuonato nella mia mente, che aveva squassato il mio intestino adesso suonasse la musica giusta. Una musica che doveva tacere. Feci finta di niente, in quest’arte sono maestra, del resto le mie gote rosse non mi avrebbero tradito, le avevo sempre così, non mangiai la merenda, quello no.
Il giorno dopo mi svegliai tranquilla vogliosa di arrivare a scuola prima del solito, nessuna tensione allo stomaco. Lei era in strada come sempre, la salutai con freddezza, nei suoi occhi dietro le lenti sporche intravidi verde speranza, ma non disse una parola. Anche mia madre quel giorno era più silenziosa che mai quando mi baciò sulla guancia, mi disse: “Come sei bollente, non starai mica poco bene?” Non le risposi ero già stata ingoiata dal portone gigantesco che come una bocca enorme risucchiava grembiuli, cartelle, storie per risputarle dopo qualche ora.
“Ho scritto una storia, due paginette di quaderno, chi vuole leggerle? “ Il quaderno cominciò a circolare in breve tra le mani e sotto gli occhi delle mie compagne, udii subito qualche risolino soffocato e sguardi puntati prima nella mia direzione, ma poi sempre più spesso in quella di Marcella. Lei sembrava una lumaca che si rintana dentro il guscio, troppo fragile.
Avevo rivisitato un telefilm che andava in onda in quel periodo e che io amavo tanto: Tarzan il re della giungla. Avevo trasformato la scuola in una giungla a ogni personaggio avevo sostituito una delle compagne di classe, indovinate a chi avevo destinato il ruolo dello scimpanzé?
Adele Musso

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