Farfalle fritte a colazione

Da Fishcanfly @marcodecave

La vista delle parole ti amo aveva fatto rinascere in lui il desiderio di vivere - 1984, G. Orwell

Spesso abbiamo bisogno di “morire”. Se dimenticassimo questa necessità potremmo fare la fine di una farfalla intrappolata in un corto circuito. Fritta. E a nessuno piacciono le farfalle fritte. O almeno, non conosco nessuno cui piacciano.

Le farfalle fritte sono quelli che si sono rassegnati, quelli a cui hanno tagliato le ali, quelli che se le sono fatte tagliare via, perché avevano troppa paura di volare. Quelli che restano ancorati a un passato da crisalide, e non si rendono conto quanto sia splendido essere farfalle: marciare trionfali verso la fine di tutto.

Dobbiamo pertanto saper morire. Scegliere di quale morte morire equivale a capire qual è la nostra qualità della vita.

Che cosa ci aspettiamo dalla vita? Che cosa pretendiamo da essa? Aspetteremo che la vita ci prenda a calci o reagiremo, finalmente padroni di essa?

Faremo la fine della farfalle fritte? O andremo incontro al mondo?

Perché sono queste le domande essenziali con le quali ogni giorno dobbiamo svegliarci e con le quali dobbiamo ri-svegliarci tutti. Le nostre azioni non sono prive di conseguenze: può sembrare un concetto banale, scontato. Il gioco di causa-effetto è tra le prime cose che ci vengono insegnate alla scuola elementare. Ricordo in particolare che questo gioco veniva analizzato per capire la materia “Storia”, e non era casuale che il fenomeno fosse analizzato in quella sfera. La Storia è un irrazionale concatenarsi di eventi razionali. Così la nostra vita è governata essenzialmente dall’irrazionalità con la quale comandiamo al nostro corpo e ai nostri pensieri la facultas agendi.

Sono sicuro che quando moriremo andremo davanti a un contabile, uno di quelli grigi, dall’aria imbruttita dai millenni, che non ci guarderà nemmeno in faccia, e noi ci faremo avanti con il nostro numeretto.

“Numero 140.876.645.264.274″

Dopo essere rimasto per qualche attimo perplesso a osservare la trafila di cifre sul bigliettino sudaticcio, dirò, con voce strozzata più dalla fatica dell’attesa che dall’emozione:

“Sono io.”

“Dica.” – dirà questo signore dalle sopracciglia folte come cespugli di more in piena estate, senza neanche guardarmi in faccia, intento a compilare un modulo, a timbrare.

“Sono io…”

“Si, ho capito numero 140.876.645.264.274. A me non basta un sono io, devo sapere come ha vissuto.”

“Prego?”

“Ha vissuto bene, è soddisfatto?”

“Veramente io…Volevo una vita diversa.”

“Allora si rimetta in fila e riempia il modulo allo sportello delle seconde possibilità.”

Guardo alla mia sinistra: la fila per lo sportello è lunghissima, eterna. Sono tutti in cerca di una seconda possibilità.

“No, aspetti. Ci ho ripensato. Ho vissuto una vita felice, si magari poteva andare meglio per alcuni aspetti, ma chi se ne frega. Ho vissuto.”

Il burbero timbra un foglio, me lo consegna. Già sta chiamando il numero successivo.

Sul foglio c’è scritto “farfalla ghiotta”. Esco dall’ufficio. Dietro la schiena mi sono spuntate due bellissime ali variopinte. L’unico reale istinto è il volo.



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