Sono appena stata sputata dal bolo di lenzuola e piumini, dopo un’estenuante influenza che, dopo anni di gradita latitanza, ha deciso di colpire la sottoscritta. Risorgo dalle ceneri dopo 3 giorni in un letto sfatto, in compagnia di termometro e tachipirina come una bambina di 2 anni al suo primo incontro con un virus. Sono debilitata e annoiata, ma forte nell’animo come un combattente all’indomani della battaglia.
Anche stavolta l’ho scampata bella, non senza un rinnovato bagaglio di consapevolezze da sociologa pagnottara quale sono. Consapevolezze che sono qui e ora pronta a sciorinare senza ritegno alcuno.Partiamo dall’assunto: i farmacisti sono generalmente pessimi pazienti.
Forse anestetizzati dalla sfilza di casi clinici, drogati di effluvi chimici o chissà semplicemente boriosi e consci di indicazioni terapeutiche ed effetti collaterali, gli speziali sono completamente incapaci di prendersi cura di se stessi. E io che appartengo alla categoria, pur non senza remore, non faccio eccezione.
Ovvero.
Al banco io sconsiglio l’uso di medicinali, siano essi rimedi allopatici o omeopatici, aborro qualsiasi cura che non siano pazienza e riposo assoluto, guardo con circospezione chi riempie la busta di SOP e OTC, i sintomatici mi provocano l’orticaria alla sola vista.
- La mia bambina (di 24 anni) ha la febbre, mi dia la tachipirina. Ogni quanto deve prenderla?
- Il meno possibile, signora cara. - Ma lei ha 38 e si lamenta.- Se si lamenta per 38 di febbre, immagino nel caso le venisse un male serio. Le faccia stringere i denti. Le temperature alte uccidono i bacilli. Guarirà molto prima.
- E se prendesse l’antibiotico? - Non senza il consulto di un medico che ne certifichi l’effettiva necessità.
- Ma lo sa che lei è proprio stronza?
- Certo, signora bella, sono qui per questo.
Insomma se hai la tosse ed entri in farmacia ti concedo il mucolitico, solo dopo averti abboffato di latte e miele.
Quando proprio voglio terrorizzare qualcuno che ha scelto per se stesso un rimedio a mio parere esagerato, lo obbligo a leggere il bugiardino. Dovreste vedere le loro facce quando scoprono che l’Augmentin può rendere la lingua nera e pelosa (il mio può essere un mestiere molto divertente).
Il mio squinzio è segretamente cliente di un’altra farmacia, ritiene che io voglia atterrarlo negandogli le cure e assume pasticche chiuso in bagno come il peggiore dei tossici.
Doverosa precisazione: con le mie pupe, il discorso cambia. Ho un pediatra che è il mio angelo custode, reperibile 24 ore su 24, pronto a darmi un supporto prima di tutto psicologico, perché quando si tratta della prole, le conoscenze universitarie vanno a farsi friggere.
C’è solo un caso in cui divento una mammoletta il cui unico dio è Pasteur: se la paziente solo io. A quel punto vale la regola: tutto purché torni attiva nel minor tempo possibile. Se ho una macchietta di pus sulle tonsille, la tentazione di infilzarmi una natica con una siringa di ceftriaxone diventa incoercibile. In caso di mal di denti, l’unica luce in fondo al tunnel è il toradol (ma solo perché la morfina ha un regime di dispensazione inaccessibile anche per me che la vendo). Se mi scotto l’avambraccio con il forno (incidenti che capitano a una che produce muffin su scala industriale) tratto la ferita come nel reparto grandi ustionati. In caso di mal di testa, mi accuccio fiduciosa vicino ad una confezione di eparina, fosse mai si trattasse di un ictus. La mia agenda pullula di numeri di telefono di specialisti che non esito a tartassare in caso di paturnie da ipocondriaca. Quando mi sento un po’ giù, snobbo le spa e mi chiudo in uno di quei grossi centri di diagnostica (cosa te ne fai di una sauna quando puoi farti coccolare con una radiografia?). Soffro di una sindrome strana, per cui l’unico luogo in cui mi sento effettivamente sicura è la farmacia. Sarà questo il motivo per cui la gravità dei miei disturbi è direttamente proporzionale alla mia presenza dietro al banco.
Insomma, dicevo, i farmacisti sono pessimi pazienti e io non faccio certo eccezione. In questi due giorni ero così concentrata a imbottirmi di pillole che ho dimenticato di sfamarmi. L’unica cosa che ho assunto in dosi massicce è stato un mix di tè verde e coca cola (praticamente, caffeina come se non ci fosse un domani).
Quando finalmente il batterio ha deciso di abbandonare il mio corpicino, sono resuscitata. Viva, ma tachicardica.
I successivi tre giorni sono stati molto duri per gli specialisti di cui sopra (per un’ipotesa di 28 anni, 92 di minima e 107 pulsazioni al minuto sono un fatto assai strano). Mi hanno visitato, auscultato, checkuppato senza alcun risultato soddisfacente. Quando, soave, ho confessato la mia novella dipendenza da caffeina, hanno bruciato il giuramento di Ippocrate e hanno tentato di linciarmi in massa.
Dicevo, i farmacisti sono pessimi pazienti e io di certo non faccio eccezione.