Con l’individuazione del presunto colpevole del delitto Gambirasio, ha preso il via una maratona mediatica senza precedenti: da tre giorni è in corso un aggiornamento costante, quasi ossessivo, minuto per minuto, su quello che fino a l’altro giorno appariva un caso senza soluzione. E tutti – esattamente come accade per le partite del Mondiale, durante le quali ciascuno ormai si atteggia a navigato allenatore – si sentono titolati a sentenziare, a discettare sull’attendibilità del test del Dna, sulla colpevolezza di Massimo Giuseppe Bossetti, su quanto sia inquietante e sulla pena che si meriterebbe.
Magari è solo un’impressione, ma in questo immenso studio televisivo nel quale nessuno è colto dall’idea che sia meglio tacere e lasciare che la giustizia faccia il suo corso, il dubbio è che a pochi, in fondo, interessi veramente di Yara. Un nome che, da simbolo di un caso che pareva senza soluzione è improvvisamente diventato, come per magia, la soluzione per tutti: per chi campa grazie agli ascolti televisivi e alle vendite dei giornali, per noi desiderosi di sentirci ogni tanto un po’ coinvolti nelle indagini, per chiunque non abbia altri pensieri o ne abbia troppi e, con essi, una gran voglia di distrazione.
Ma la tragedia di una ragazzina uccisa in modo tanto brutale, forse, merita più rispetto di quello che le nostre chiacchiere da bar, al momento, hanno saputo riservargli. E se i giornalisti, ben stimolati dai loro direttori ed editori, pensano di rifilarci ogni istante degli sviluppi di questo caso da qui alla sentenza della Cassazione, dobbiamo trovare la forza che non abbiamo – e che non abbiamo avuto per Avetrana e Cogne – ed usare il telecomando. Non per tanto per frenare la curiosità, bensì per fermare la morbosità. E per lanciare un appello semplice ma chiaro: fate il processo per Yara, non per gli ascolti.