Ero a lavoro, un paio di giorni fa, e una mia collega chiacchierava con una ragazza. Le diceva, con convinzione, che mettere nel curriculum solo i lavori realmente fatti denota inesperienza, e che è sempre meglio inventare rapporti passati perché tanto nessuno va mai a controllare le referenze.
Ero a metà tra l’allibito e l’ammirato, e poi ho realizzato che presentarsi a un colloquio è sempre una cosa che suscita un discreto panico. Tipo: tutti quelli che ho fatto io sono stata capace di sbagliarli clamorosamente.
Quando la Disney doveva decidere se mandarmi negli Stati Uniti a scrivere un blog sui Jonas Brothers feci una serie infinita di selezioni. Durante una di queste mi toccò parlare in inglese con un responsabile del personale con velleità da psicologo, il quale doveva verificare se sarei stata in grado di non sgozzare quei tre fratellini cantanti non appena li avessi incontrati.
Lo psicologo mi chiamò su Skype e io tentai di sembrare una persona seria, con un abbigliamento dignitoso: rossetto rosso, occhi truccati, camicia, ma poi i pantaloncini del pigiama, ché tanto nello schermo non si vedevano. Tra le altre cose, lo psicologo mi domandò della mia famiglia. Cane, naturalmente, fu il primo membro che ne citai. A quel punto fui costretta a descriverlo: «My dog is… a watermelon with feet!». Lui rise, e io partii per gli Stati Uniti, con Collegamica Femminista e Rivoluzionaria.
Quando la direttora del mio giornale mi scelse, assieme ad altre collegamiche, per fare l’ufficio stampa di uno studio di architetti, la prima fase della conoscenza con il datore di lavoro si sviluppò durante un aperitivo con un sacco di invitati. E un sacco di bicchieri di prosecco a uso e consumo degli stessi.
A fine serata, i camerieri che li riempivano e li porgevano ai convitati conoscevano i miei nome, cognome, data di nascita, codice fiscale e pure lo stato di famiglia. Tra un po’, saremmo diventati di quegli amiconi di vecchia data che ti chiedono sempre di mandare i loro saluti a tua mamma, tua zia e anche al salumiere all’angolo.
Quando per il part-time degli studenti all’Università hanno fatto gli incontri conoscitivi, utili anche a decidere il calendario delle ore da fare, io mi sono messa in prima fila: «Vorrei cominciare subito».
«Subito non si può, facciamo il mese prossimo?»
«Il mese prossimo vado a Edimburgo.»
«E il mese dopo ancora?»
«Sarò depressa per via del fatto che sarò tornata da Edimbugo.»
«E il mese successivo?»
«OKay, ma mi serve sin d’ora una settimana di permesso, perché devo andare a Milano.»
Fossi stata al posto di chi compilava quel calendario, mi sarei mandata via a suon di bestemmie svedesi e calci nel deretano.
Quando un amico mi ha chiesto di scrivere per lui su un magazine che si occupa di cucina, ho accettato. E lui m’ha domandato: «Sicura di farcela?». «Figurati se non sono in grando di scrivere di cucina!»: un tono così spocchioso e arrogante non so neanche da dove sia uscito, però ci penso ogni volta che chiedo di spostare il limite della deadline un po’ più in là.
Ma il migliore tra tutti è stato il colloquio con il direttore dei miei sogni, quello che lavora nella redazione in cui ero convinta che sarei entrata solo in pellegrinaggio. Un colloquio che è un capolavoro dell’imbecillità.
Tralasciando il fatto che ho fotografato il citofono e l’ingresso, perché volevo che quell’immagine là rimanesse impressa nella memoria del mio computer nei secoli dei secoli, a testimonianza di bellezza e perfezione, credo che se avessi fatto scena muta ne sarei uscita meglio.
Lui – il capissimo – era lì, che mi aspettava nel suo ufficio. Io sono entrata, ho fatto per stringergli la mano e sono inciampata su una poltrona. Mentre balbettavo scuse, senza ancora avergli stretto la mano, ho fatto cadere la mia borsa, aperta, dalla quale è venuta fuori la scatoletta con tabacco e filtrini, che si sono sparsi sul pavimento di una stanza che, nei miei desideri più ambiziosi, mi immaginavo di lavare e spolverare in qualità di colf.
Il Capissimo era interdetto, io color porpora. Peggio di così, pensavo, non potrà andare. Ma mi sbagliavo, giacché pur sempre di colloquio si trattava: a domande avrei dovuto rispondere.
«In base alla selezione di articoli che hai mandato, ho dedotto che non fai cronaca»: io non faccio cronaca? Io adoro la cronaca, impazzisco per la cronaca, quando non scrivo cazzate scrivo cronache.
«Io, veramente… Sì, faccio cronaca.»
«Che tipo? Giudiziaria? Nera? Bianca? Rosa?»
«Un po’ e un po’.»
«Quindi la sera fai il giro di telefonate a questura, carabinieri, polizia, guardia di finanza, ospedali eccetera?»
«No.»
A questo punto, una persona sveglia avrebbe spiegato al Capissimo che un piccolo giornale con pochi redattori fa una fortissima selezione sulle notizie da dare, e predilige quelle che potrebbero avere degli sviluppi da seguire nel tempo. Ma la vostra affezionatissima, si sa, non è una persona sveglia, sicché ha indossato lo sguardo da gallina scema e ha taciuto.
Ma il Capissimo è un uomo buono, e mi ha dato un’altra opportunità: «Leggo nel tuo curriculum che il giornale per il quale lavori ha vinto un sacco di bei premi. Tu che hai fatto per contribuire?»
E qui rientra il gioco la differenza tra una persona sveglia e la sottoscritta. Una persona sveglia avrebbe acquisito un’espressione eroica e avrebbe ammesso il sacrificio per la patria: mentre un’intera redazione si dedicava a meravigliose – e faticose! – inchieste, bisognava che qualcuno restasse a fare il lavoro di tutti i giorni, moltiplicato per via delle giustificatissime assenze.
La sottoscritta, invece, a quel «E tu che hai fatto per contribuire?» ha risposto «Niente». «Niente», capite? «Niente».
Ero completamente nel pallone, gli occhi sgranati come la Carfagna e l’espressione intelligente di Belen a Sanremo. In pratica, una pirla. In fondo, avevo solo mandato a puttane il colloquio che per ventun anni non avevo neanche mai avuto il coraggio di desiderare davvero.
Come mai il Capissimo, alla fine, non sia tornato sui suoi passi, decidendo che perfino un pastore dell’entroterra siculo senza neanche la licenza elementare sarebbe stato meglio di me, non è ancora chiaro. Però una cosa è certa: se è vero che un colloquio suscita panico, è anche vero che uscirne indenni dipende quasi esclusivamente dal fattore culo. O ce l’hai, o te lo fanno.