Faust

Creato il 06 maggio 2012 da Af68 @AntonioFalcone1

Ultima parte di una tetralogia a dedicata al potere, nelle sue varie esternazioni e devianze, opera del regista russo Aleksandr Sokurov (Moloch, Taurus, Il sole, incentrate, rispettivamente, sulle figure di Hitler, Lenin ed Hirohito), Faust, vincitore del Leone d’Oro alla 68ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, è un film la cui visione mi ha particolarmente appagato, tanto da un punto di vista visivo che contenutistico, pur riconoscendo come la sua impostazione complessiva, lontana anni luce dagli stilemi cinematografici più in voga, richieda una partecipazione attiva dello spettatore, rispecchiando un’idea di cinema alla quale, forse, non si è più abituati.

La mia impressione, comunque, è che la storia si dipani con una certa scorrevolezza (la sceneggiatura è opera dello stesso regista e di Marina Koreneva), pur nell’evidente impatto teatrale, ulteriormente sottolineato dai dialoghi serrati, non privi di un certo umorismo, e nella frequente ricorrenza di simbolismi non sempre facilmente comprensibili di primo acchito: l’insolito, “antico”, formato della pellicola, che riporta sullo schermo il quadrato smussato ai bordi, è del tutto simile al sipario di un palcoscenico o, meglio, ad un quadro, considerando le influenze pittoriche (Bosch), riguardo scenografia (Yelena Zhukova) e fotografia (Bruno Delbonnel), all’interno del quale viene rappresentato, costretto e spesso deformato nell’inquadratura, l’eterno cammino dell’essere umano, sospinto dalla sua ansia di conoscenza.

Faust (Johannes Zeiler, foto) può ricordare l’Ulisse dantesco, ma a differenza di quest’ultimo, la sua brama di sapere si materializza in un desiderio di tangibile possessione, una presa di potere su qualsiasi oggetto o essere vivente, ma non definitiva, perché, anche una volta soddisfatta, è sempre alla frenetica ricerca di un “oltre”, di un non spiegabile da voler comprendere a tutti i costi: la macchina da presa si fa un tutt’uno con tale affannoso peregrinare, dopo lo stacco iniziale che dal cielo (da una nuvola pende uno specchio, probabile invito per noi spettatori all’identificazione, come, azzardo, un richiamo all’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio) ci ha condotti nel villaggio dove Faust esercita la sua professione di medico.

Qui, nello scenario di un putrido inferno sulla terra, dove tutto appare marcio e odoroso di decomposizione, una varia umanità vive allo sbando, avendo ormai perduto ogni valore di riferimento che non sia la mera soddisfazione dei più elementari bisogni materiali: il luogo ideale perché un “povero diavolo”, nelle vesti di un usuraio laido e deforme (Anton Adasinsky, foto) possa depauperare o arricchire gli uomini a suo piacimento, più simile a Lucifero, l’angelo caduto, che a Mefistofele, nella sua ferma consapevolezza che l’essere umano non solo non sia in grado di un discernimento tra Male e Bene, ma resti saldamente ancorato alla terra, fermo al verbo e inabile all’azione, visto che“può certo volare ma non sopporta la vertigine”.

La ricerca dell’anima da parte di Faust, di un senso da attribuire all’esistenza, propria ed altrui, con lo strozzino a far da concatenatore ed ispiratore ai vari avvenimenti, si risolve nel suddetto bisogno della tangibilità, in un’estrema corporalità espressa ad ogni livello: anche la giovane Margareth (Isolda Dychauk, foto), che potrebbe costituire il contatto (eterno?) con la Grazia e la Bellezza, sublimando l’amore verso il trascendente e l’assoluto, lo sarà solo per un breve attimo, poeticamente cristallizzato da Sokurov in un fermo immagine contornato da luce abbagliante. La donna, infatti, diviene un mero strumento passivo, un semplice oggetto di desiderio, merce di scambio con il Maligno, cui Faust offre tramite apposito contratto la propria anima, ma solo una volta appurata la sua inesistenza o, meglio, di come sia l’uomo a non riuscire a renderla libera dal suo essere eterea ed inconsistente, sviluppandone ed alimentandone l’ essenza, facendola divenire un tutt’uno con la propria individualità.

Una volta esaurita la sua ricerca in terra, soddisfatto nei suoi desideri materiali dal diavolo, condotto da questi in un “altrove”, un aldilà desolato, dominato dagli elementi naturali, Faust non esaurirà la sua vacua lotta razionale: una volta fatta fuori la sua guida, continuerà a peregrinare, solitario, preferendo al libero arbitrio la solipsistica soddisfazione di andare sempre oltre, alla continua ricerca di un confine da varcare, di un senso da conferire a quanto ci circonda che vada al di là del mero potere esercitabile su di esso, senza rendersi conto di come proprio nella mancanza di un significato da attribuire a tutto ciò, “colonne d’Ercole” concrete e difficilmente superabili, risieda il nucleo essenziale dell’arco vitale.


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