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Faustino Onnis: l’uomo, il poeta a undici anni dalla scomparsa.

Creato il 15 luglio 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Faustino Onnis: l’uomo, il poeta a undici anni dalla scomparsa.di Franco Pilloni.

 

A undici anni dalla sua dipartita, Selargius, la cittadina dell’hinterland cagliaritano dove ha trascorso la maggior parte della sua vita, ha voluto ricordarlo con una manifestazione di due giorni, il 22 e ilo 23 giugno scorsi, con un convegno di studi e la cerimonia di premiazione di un concorso di poesia in lingua sarda, organizzati dalla Fondazione Faustino Onnis, curati dalla Presidente della Fondazione, Rita Corda e dalla sua vice Luciana Onnis, la figlia minore del poeta, e con la presenza di amici e personalità della cultura sarda che fanno parte della giuria del Premio  (Nereide Rudas, Maurizio Virdis, Giulio Paulis, Dino Maccioni), o che hanno relazionato (Martino Contu, moderatore; Simonetta Sitzia, relatrice e coordinatrice scientifica; Gianni Orrù, Gavinu Maieli e Franco Pilloni, relatori).

È venuto fuori che la vita di Faustino Onnis è stata alquanto avventurosa (almeno sino a che non ha messo la testa a posto sposando la signora Carmen Suergiu, che le ha dato la bellezza di 11 figli e alla quale ha dedicato non poche poesie, sia in lingua italiana che in lingua sarda), a cominciare dalla sua adolescenza in San Gavino Monreale, dai primi lavori come apprendista calzolaio, sino al lavoro come manovale nell’edilizia alla ricostruzione di Cagliari, nel 1946, dove era rimasto una volta uscito di prigione dove era finito nella primavera del ’43, per la chiassosa protesta per le vie del suo paese atta ad impedire ai paracadutisti là stanziati di approfittare delle ragazze del paese la notte precedente alla loro ritirata. Faustino risultò uno dei maggiori indiziati perché i carabinieri si ritrovarono in mano uno zoccolo, perduto dai dimostranti durante la fuga per non essere arrestati. Fra tutta la combriccola infatti, egli era l’unico a non camminare scalzo, visto che si era costruito da sé gli zoccoli nei ritagli di tempo del suo apprendistato da calzolaio. Per sua fortuna, il Fascismo cadde qualche giorno prima del giorno del dibattimento già fissato, così che venne scarcerato  senza subire alcuna condanna.

Rimasto a Cagliari a lavorare nell’edilizia, incontrò degli amici anarchici, se pure non li conobbe in cella, e venne a contatto con quell’ideologia che era conforme alla sua indole ribelle, visto che rimase libertario e insofferente del potere per tutta la vita, come un cavallo ferito dalla sella.  È di questo periodo la poesia dedicata a Cagliari, sicuramente uno dei primi tentativi, dove abbastanza contraddittoriamente canta l’allegria e il dolore della città ferita dalla guerra, insieme alla fame dovuta alla scarsità dei generi alimentari,  allora venduti al mercato nero, e al desiderio di tornare al suo paese, dove supponeva che avrebbe trovato di che sfamarsi a sufficienza. La poesia, come si vede, è un sonetto in lingua italiana, come tutte quelle di questo primo periodo:

A Cagliari

Opulenta città ricca di amori

che le tue figlie offrono agli amanti

fra le canzoni e i sordidi rumori

che nell’aria si levano festanti.

 

Città redenta d’atroci dolori

soffocati di risa e non di pianti

cacciami via da tutti i tuoi orrori

riportami alla schiusa dei festanti.

 

A quel villaggio ov’io son nato cacciami,

là dove io a lungo mediatore possa

e in pace almeno mediatore lasciami.

 

Io certo son che riuscirò a rifarne

se il telaio tu mi dai delle mie ossa

sopra di esse la perduta carne.

Altre poesie di quel periodo sono: Luna di giugno, I tuoi occhi (questa dedicata a Carmen) e Alla Sardegna.

Dalla relazione de Simonetta Sitzia (Dall’’archivio privato note per una biografia: i sentieri dell’anima, l’impegno politico e sindacale) abbiamo appreso come Faustino sia stato un ardente comunista, finanche segretario paesano della Gioventù Comunista: scrisse, a tal proposito, chiosando involontariamente il celebre saggio di B. Croce del 1942 Perché non possiamo non dirci “cristiani”, una poesia dal titolo Perché non possiamo non essere comunisti. E a nulla vale il fatto che successivamente, di propria mano e con la penna a biro, abbia corretto quel comunisti in anarchici, quando si rese conto che dentro il partito non c’era spazio per idee divergenti: confessò la svolta della sua vita al sacerdote don Paolo Carta, amico di sempre che intanto era stato nominato vescovo di Foggia: col prelato tenne un rapporto epistolare significativo su ogni aspetto della sua vita, fino a chiedergli quale fosse il modo migliore per un incontro con Padre Pio, allora ancora vivo e non ancora santo.

Nella relazione che ho presentato personalmente, Il poeta, l’ispirazione, i modelli come titolo, basata sui ricordi di una famigliarità quotidiana lunga dieci anni, parrebbe che Faustino abbia visto nella politica del PCI l’attuazione degli ideali anarchici che l’avevano nutrito nella prima giovinezza, grazie alle frequentazioni degli amici del periodo cagliaritano e ai giornali (Anarchia o Anarchica, ne custodiva gelosamente alcune copie), oltre alla conoscenza a memoria, una per una, delle poesie di Lorenzo Stecchetti che, per sua stessa ammissione, lo aveva da sempre ispirato. E siccome Lorenzo Stecchetti era solamente uno dei tanti pseudonimi utilizzati da Olindo Guerrini uomo di cultura romagnolo, bibliotecario in Bologna, critico letterario (il primo e forse l’unico che ha preso in considerazione l’opera di uno scrittore del Seicento, Giulio Cesare Croce, autore di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno), anticonformista, anticlericale, ammiratore e amico di Giosuè Carducci, ciclista in tutt’Italia e amante degli scherzi (girarono false poesie del Foscolo e componimenti di un Leopardi giovane, prese in seria considerazione dai critici, ma in seguito smontate da lui stesso), neanche Faustino si tirò indietro quando ci fu da combinare una burla o di infiammare una polemica. Aveva infatti composto una bella poesia per la Sardegna: un giorno me la recitò, mi piacque e ci venne subito la voglia di adattarla un poco (aveva troppe parole in sardo!) e di attribuirla al Carducci, del quale c’inventammo una visita a Cagliari nel 1869, allo scopo di tenere una prolusione dal titolo Dignità e decadenza nelle lettere di Iacopo Ortis. Allora capitò che il poeta, mentre cenava in una tipica trattoria di Sant’Avendrace (Santa Tenera per i cagliaritani), s’incontrasse con un pellaio selargino, alla casa del quale finirono a mangiare callu de crabittu (formaggio piccante che si forma nello stomaco di un capretto, allattato prima di ucciderlo) e a bere malvasia. C’inventammo anche una lettera all’amico Chiarini in cui il poeta raccontava l’accaduto: ho bevuto “eccellente vino di malvasia … di vicine balze marnose” e ho mangiato “briglie di pane onesto, spalmato com’io dissi…, così che “ me ne venne gran turbamento alle budella … finché credetti morir di fuoco occluso!”.

Pubblicammo il tutto sul n. 1 della rivista Paraulas, nell’autunno del 1999, col titolo La sella del diavolo:

O bianco scoglio di Gran Madre terra

 che primo t’ergi a frenar dell’onde

 una risacca dal fragore triste

come nenia di prefica dolente,

io t’ho veduto avvolto nella luce

titubante di una notte lunare

serrato in ombre grigie di mistero

simile a quello che ispirare volle

la fantasia di quei guerrieri antichi

che presero a dimorar presso i tuoi liti

e t’apposero un nome orrido e strano

in armonia co’ loro strani riti.

 

A cerchio di veder m’è parso ieri

i primi abitator del suol vetusto

d’Ichnusa dai tramonti ardenti

sedere come un dì, superbi e fieri,

adoratori di pietre e di sorgenti,

esecutori della legge atroce

del lor feroce dio, che i primi nati

a sé voleva, sì ch’ a posteri ancora

sol per i frutti che la campagna inserra,

giunse immutato il suo comandamento:

“Su primu est po sa terra!”.

 

(La Sella del diavolo è il nome di un promontorio che delimita a est il golfo di Cagliari; Su primu est po sa terra, si traduce con Il primo (frutto o figlio che sia) è (destinato) alla terra; ndr)

La poesia originale è ancora più lunga, ma a noi bastava questo. Faustino ha scritto molte poesie in italiano, in questa forma colta, austera, classica; ne è rimasta traccia nella traduzione che ha curato della sua raccolta di poesie intitolato Perdas (Pietre, ndr): non si è mai vergognato, né mai ne ha tratto vanto.

La svolta più importante nella vita culturale di Faustino si compie con l’incontro di personaggi di peso nella vita culturale cagliaritana, del calibro di Francesco Masala, Aquilino Cannas e quell’Angelo Dettori che, nel 1980, rimette in piedi la rivista S’ischiglia e lo chiama, insieme ad altri, come collaboratore in redazione: da quel momento Faustino lascia l’italiano e scriverà sempre in sardo. L’idea portante era quella di dare un vestito nuovo  alla poesia sarda, di lasciare i sentieri antichi dell’Arcadia, tramontata in Italia ma ancora ben imperante in Sardegna, di abbandonare la metrica e i modelli di far poesia, passando dalle antiche terzine dantesche, dalle ottave del Tasso e dell’Ariosto, dalle quartine a una libertà piena data dal verso libero. Questo percorso era conforme alla sua indole e lo fa capire in due poesie in cui canta da una parte la piena libertà dello spirito, dall’altra la convinzione che sia arrivata l’ora per tentare nuove vie: Lieru e sene meri.

Lieru e sene meri

Su pensamentu miu

Si pesat in s’airi

E andat circhendu,

comente cau asuba 

de is undas de su mari,

sa ‘ia chi ddu portit

a is mizzas de sa luxi

aundi furcint is sentidus

prus bellus chi bolant

po fai niu in su coru de s’omini.

 …….…

Libero e senza padrone, il mio pensiero si alza in volo in cerca della via che lo porti a scoprire le sorgenti dei sentimenti più alti che s’annidano nel cuore dell’uomo. (trad. libera)

Libero e senza padrone, dunque, ma senza dimenticare gli ideali della fratellanza anarchica, come dice nella parte finale della poesia:

Lieru e chene meri

Che coru ch’impunnat

A gherrai cun arrexonis beccias

Po afferrai su chi bramat e bolit,

su pensamentu miu

si strantaxat e gherrat

po un’arraxoni de vida

e po unu mundu fattu de fradis bonus

chi si castint a pari e movant

po si scabulliri de sei

in is oras di abbisongiu.

Libero e senza padrone, come un cuore che si ribella ad antiche pratiche di servitù, il mio pensiero si alza e lotta per una ragione di vita e per un mondo fatto di buoni fratelli che si aiutino a vicenda nel bisogno. (trad. libera).

Il cambiamento invece è messo in chiaro nella poesia Passus nous (Passi nuovi):

Cun boxi chi sonat che launedda

de canna ‘e fenu in beranu

sa segnora mi proponit passus de danza.

 

 Passus nous chi no sunt

is passus de sempri, arroscius,

de su ballu tundu.

 

Deu dd’ascurtu, dda castiu e pensu:

hat essiri custa sa borta

chi, po nosu sardus, podit cumenzai

una danza noa chi no siat

sa danza de is molentis de sempiri?

 

E chini ddu scit! Deu seu in duda.

Ma cumbenit

a tentai passus nous.

 

Con una voce che pare un flauto ricavato da una canna d’erba a primavera, la signora mi propone passi di danza. Passi nuovi che non sono quelli di sempre, andati a ufa, del ballo tondo. Io l’ascolto, la guardo e penso: sarà la volta buona che per noi sardi possa iniziare una nuova danza che non sia il ballo di sempre degli asini (in tondo attorno alla macina della farina)? E chi lo sa? Io sono dubbioso, ma conviene tentare passi nuovi (Tad. Libera in cui questo frammento è la fine della poesia, mentre quello che segue è l’inizio).

Chi gli porge l’invito a ballare la nuova danza è una signora, descritta secondo i canoni di Stecchetti:  “Quando nell’ombra de’ tuoi neri occhioni / improvvise balenano e procaci / le cupidigie che arrossendo taci / e mi tenti e mi sgridi e mi perdoni; // …” , oppure “Vieni, Nerina! Siediti / lieta sui miei ginocchi / e ti scintilli cupida / la voluttà negli occhi; // Vieni, ed il collo cingimi / con le soavi braccia, / io nel tuo sen che palpita / nasconderò la faccia. // …”, ma anche il D’Annunzio de La pioggia nel pineto: “… / i denti negli alveoli / son come mandorle acerbe”.

Una schiringiada de arrisu

scoberrit, intre lavras de coraddu,

una farrancada de papus biancus

de mendula limpiada

po dentis avvesus a su mussiu.

 

Una cincidda de is ogus

alluttus che pampas.

 

Un accenno di sorriso scopre, tra labbra di corallo, una manciata di semi bianchi di mandorle sbucciate per denti avvezzi a mordere. Una scintilla degli occhi, accesi come fiamme. (trad. libera).

Bisogna tener presente che in sardo siamo abituati a paragonare i bei denti alle mardorle sbucciate e, dunque, non è da prendere in considerazione una copiatura, ma solo un sentimento dell’amore non più romantico o arcadico, dove si poneva la donna sopra un altare così che pareva sempre lontana e impossibile da toccare con le mani, ma una concezione nuova dell’amore che vede la donna come essere fatto di carne e di passione. Anche nella vecchiaia non rifiuta di vedere quanto la vista di una donna giovane e bella possa turbare un uomo, anche se fa sorgere il rammarico per l’età che non perdona:

Annieddigada de su soli

 parris de brunzu; ma ti movis sempiri

a passu de pisittu

chi m’assogat sa castiada

e m’indi tirat,

de fundu de is intragnas,

un’ ‘erchidu de disigiu

e de surrungiu.

Ah, … si no fessi becciu!

 

Scurita dal sole sembri di bronzo, ma hai movenze feline che catturano il mio sguardo e mi traggono dal profondo delle viscere un ululo di desiderio e di rammarico. Ah, se non fossi vecchio! (trad. libera).

La relazione di Gianni Orrù (Un uomo di cultura in Selargius nel secondo dopoguerra) ha presentato Faustino come operatore politico e culturale, dato che è stato consigliere comunale (indipendente nella lista della DC) dal 1975 al 1980, mentre Maieli (Il poeta e l’uomo di cultura, da S’Ischiglia a Nur) ha ricordato il tempo passato nella redazione di S’Ischiglia.

In finale di serata, alcuni amici (Anna Cristina Serra, Anna Maria  Badas, Francesca Petrucci, Sergio Medved e Bruno Pisano) hanno letto alcune poesie di Faustino o altre in suo onore. Ha chiuso l’attore Ottavio Congiu che ha recitato, come sa fare solamente lui, “Accurrei …a sa prazza” (Correte in piazza), un monologo politico di Faustino.

Chi l’ha conosciuto, converrà insieme a me che Faustino merita tutto quello che di buono è stato detto e che non si può dimenticare che gli ultimi venticinque anni della sua vita li ha dedicati alla lingua sarda, in modo particolare all’espressione che chiamiamo campidanese, quella pulita, onesta, colta e popolare dei Catechismi dell’Ottocento, dei poeti cagliaritani e campidanesi, delle preghiere del vescovo di Ales, mons. Pilo, delle commedie che il popolo ama e che ha imparato a memoria, a cominciare da Sa coia de Pitanu e Sa Scomuniga de pred’Antiogu. Ha compilato il Glossariu, mille e mille vocaboli in aggiunta al prestigioso Vocabolariu del canonico Vincenzo Porru; ha preparato un saggio sui suoni e i canti della tradizione sarda, pubblicato in Attoppus/Incontri nel 1996. Una battaglia spesa contro la LSU prima, contro le altre lingue “politiche” poi. Avere stima per Faustino significa anche amare e conservare le sue parole, sempre levigate, sempre ben scelte, sempre piene di ritmo e di armonia.

Misero chi butta la coperta di lana tessuta al telaio a mano per sostituirla con una ricavata con gli scarti di lavorazione del petrolio. Uguale la salute!

Featured image, homepage del sito della Fondazione Faustino Onnis.


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