Lui non lo sa come gli altri occupino il loro tempo libero. E nemmeno se lo chiede. Lui, tornato dal lavoro, compiute le necessarie mansioni domestiche, fatti gli acquisti, ed evaso tutto quell'insieme di cose delle quali gli sembra proprio indispensabile occuparsi, si lascia cadere lì, su quella sedia girata verso il muro e rimane, e guarda, e fissa, e nient'altro. Tutto il tempo che può. E non s'annoia, no, proprio per niente. Beh, certo, se è per questo non si può proprio dire che si diverta, ma che significa?lui non sa cosa voglia dire, nemmeno se lo chiede cosa sia annoiarsi, cosa sia divertirsi. Sta lì, fermo-fermo, spalle al mondo, buono-buono, e guarda avanti. Punto e basta. Quando poi la sera scende ed il muro diventa prima grigio ed infine nero, capisce che la parentesi si stringe, si chiude poi, ed è ora d'alzarsi. Accende un lume, cena velocemente e corre a dormire. Tutti i giorni, domenica compresa. E non c'è nulla di strano, in tutto questo, almeno che lui sappia. Se infatti voi mai l'incontraste, un giorno, durante le sue brevi, necessarie sortite fuori casa, chiedete, chiedetegli pure qual è il suo passatempo, lui tutto compito, senza scherzare – non sa scherzare – vi risponderà Sto a guardare il muro. Se ciò vi meraviglierà e crederete di voler approfondire o di fargli notare che forse c'è di meglio da fare, nella vita, lui, molto probabilmente ribatterà così: Non che io sappia, e se non so, probabile che non m'importi.In casa sua vive da solo e forse, anzi, sicuramente è meglio così. Si sa, ci sono degli hobby che ti rubano tanto di quel tempo ed energia che fai fatica a costruirti una relazione seria nel mondo, figuriamoci a mantenere un'equilibrata, serena convivenza con qualcuno nella tua stessa casa. È questione di scelte d'altra parte, in fondo, non si discute. Lui aveva fatto la sua, ed era così tutto solo. Da molti anni. Inizialmente era capitato nella casa dei suoi genitori, poi loro se n'erano andati. Poi gli erano capitati in casa prima un cane e poi un gatto, ma di punto in bianco anche loro se n'erano andati. Da lungo, lungo tempo, insomma, lui non capitava più nella casa di nessuno e nessuno più capitava in casa sua. Così non era un impiccio, non era una perdita di tempo, non disturbava nessuno, quel suo hobby. Rientrava e si metteva lì, davanti al muro.Questa storia, come forse avrete notato, è sovrastata, dominata da una strana dimensione del tempo, sempre uguale e piatta, che quasi insensibilmente scorre per il nostro protagonista. Per lui, navigare su questo liscio fiume è come non navigare affatto. È così abituato a sfilare senza scosse sulle quiete acque che ha scordato la barca e pure il fiume. Per quanto ne sappia potrebbe continuare così fino al mare, se è al mare che deve andare e, una volta al mare, dimenticare definitivamente quel fiume di cui, nell'istante da cui ne sarà sbucato, si sarà per un breve momento nuovamente rammentato. Il mare, certo, poi, per quanto risulti, potrebbe pure non esistere e non essere mai esistito... potrebbe essere mera diceria, leggenda metropolitana... si rimane forse per sempre su questo liscio fiume e basta, fino a dimenticarlo, fino a dimenticarsi.Accade, però, nostro malgrado, talvolta, che senza farsi annunciare, ci travolga un'onda straordinaria che non possiamo far nulla per evitare. Quella ci sferra una tale sferzata alle spalle che rischiamo di svegliarci, o peggio, di cadere in acqua, di scoprire ingovernabile da un momento all'altro la nostra improvvisamente fragile imbarcazione della cui guida non ci siamo mai curati di far grande esperienza. Non si può, certo, prevedere il futuro, e a questo – è ovvio - ci si deve rassegnare... ma del passato si può aver maggiore cura, ed anche del presente che consideriamo effimero e fugace. Ci sarà di certo una ragione, un fatto piccolo che è sfuggito alla nostra attenzione, se magari a monte una frana, la caduta di un grosso masso provoca quest'evento che ormai non possiamo altro fare che rassegnatamente certificare come imponderabile. Noi guardiamo sempre avanti, convinti che dietro di noi non ci sia più nulla d'importante, più nulla di vivo, e invece proprio lì, alle nostre spalle, si è apparecchiato questo scherzo di cattivo gusto che a gran velocità ci raggiunge e ci sconvolge il panorama. Ci ritroviamo così inevitabilmente bagnati: il nostro corpo, il fiume, ci ricordano di loro.Stava, comunque, lui, tranquillo, a cavallo del suo placido fiume, immobile. Relativamente, perlomeno, per quanto poteva constatare. Insomma, quieto ed imperturbabile davanti al suo rassicurante muro, come sempre, anche quel giorno. Sentendo quel, già ai lettori più attenti si saranno drizzate le orecchie. Avranno certamente capito che questo – quello- non può più essere considerato un giorno qualsiasi. Ed infatti, in un certo, qual preciso momento, il nostro amico incominciò a notare che qualcosa davanti a lui stava cambiando in uno strano modo. Prima impercettibilmente, poi, quasi con prepotenza, oseremmo dire: delle linee rosse come la brace si disegnavano e vibravano sulla piatta superficie del suo solito, lindo pezzo di muro. Infine un pentagramma di fuoco si delineò nettamente davanti al suo sguardo attonito. Un pentagramma vuoto, senza note, senza musica. Si voltò, allora, di scatto, istintivamente, - cosa che di solito non faceva mai, ma che si sentì costretto a fare - ricavandone in seguito col senno del poi l'impressione d'osservare in sé stesso il gesto d'un estraneo - per tentare di trovare l'origine di tale disastro e la prima cosa che notò fu che la sua stanza sembrava attraversata da sospese, abbacinanti strisce di luce rapidamente attraversate da innumerevoli, fluttuanti, piccolissimi corpuscoli che venivano dal nulla e svanivano nel buio. Uno spettacolo che gli dava l'idea che qualcuno avesse infilato cinque spade nella sua finestra e che quelle stessero tagliando casa sua da una parte all'altra. Erano così vivide, sembravano così reali che tentò d'avvicinarsi alla finestra stando bene attento a non attraversarle, convinto che l'avrebbero potuto ferire. Quando infine si decise che non potevano essere altro che innocue strisce di luce che penetravano tra le listelle della tapparella, che non era stata chiusa del tutto, scattò verso la finestra con un inedito balzo. S'accostò a quelle feritoie come una guardia tra i merli d'un castello e cercò di guardar fuori, allo scopo di trovare la fonte di quei segni scarlatti che così insolentemente erano da lì penetrati fino a presentarsi innanzi al suo mite sguardo. E cosa vide, all'orizzonte! Inizialmente fu preso da un certo, vago timore: credeva, infatti, di primo acchito, di star assistendo ad un terribile incendio scoppiato chissà dove ai confini della città e che senza dubbio ormai avanzava imperterrito ed invincibile fin sotto a casa sua. Prova ne era che già le prime avanguardie avevano invaso e marchiato la sua casa... ma poi ricordò il sole, ricordò il tramonto e capì senza più ombra di dubbio che quello e non altro, era lo spettacolo che davanti a lui si stava svolgendo. Ma: no! Non era certamente un tramonto qualsiasi, era il tramonto più bello che avesse mai visto. Ma: no!pensò: Non è il tramonto più bello che io abbia mai visto, è la cosa più bella che io abbia mai visto. Bella, era, a tal punto, questa “cosa”, che quando il nostro eroe notò che il sole stava per andarsene del tutto, per non vederne la fine, serrò gli occhi violentemente, nell'intento d'imprigionare quell'ultimo istante dietro alle sue palpebre il più a lungo possibile. Voleva far durare quel tramonto più di quanto quel tramonto sarebbe durato, e così, con gli occhi ben serrati e per sicurezza anche con le mani a schermatura dello sguardo si diresse, con quel tesoro conservato dentro di sé, nel buio, verso il letto. Voleva infatti andar subito a dormire con quello spettacolo nella testa, voleva condurre nel proprio buio tutta quella straordinaria bellezza, voleva proteggerla, prolungarla, sognarla ancora e per sempre.Subito, come s'era augurato, con quella visione s'addormentò e sognò di stare disteso in mezzo ad un enorme deserto, con lo sguardo fisso su nel grigio, uniforme cielo. Tutto sembrava tranquillo, niente, apparentemente lo disturbava. Era così rilassato che anche nel sogno sentì di stare per addormentarsi, poi intorno a sé la temperatura andò velocemente aumentando, capì che qualcosa stava succedendo: udiva ora dei piccoli scoppi ed un certo, lontano, indistinto crepitio. S'alzò un vento, un vento impetuoso, senza che l'annunciassero premonitrici avanguardie di piccoli soffi, ed il cielo prese rapidamente a mutare: nuvole sfilacciate, velocissime, scorrevano senza riguardo alcuno davanti ai suoi occhi. Il crepitare intorno a lui si fece più marcato. Realizzò con orrore, istantaneamente, che il fuoco – un grande fuoco – si stava sempre più stringendo intorno a lui. La situazione s'aggravò ulteriormente quando si rese conto che al bisogno non sarebbe stato in grado di muoversi, che il suo corpo era come bloccato lì, inchiodato da sempre e per sempre. Senza dubbio l'incendio ormai lo stava lambendo, piccole lingue di fuoco già l'avrebbero potuto leccare, se avessero voluto. Stavano solo indugiando un ultimo momento, come fa chi rimira il proprio ultimo prelibato boccone prima d'inghiottirlo. Il suo fiato divenne sempre più veloce, il panico lo stava sopraffacendo e si augurò di svenire, di morire d'un colpo. Ora sentiva che – chissà come – il fuoco ardeva sotto di lui che si trovava forse sul fondo del piatto d'un fornellino, d'un incensiere, d'una di quelle cose lì, insomma. Sentì che si stava sciogliendo. Si chiese se sciogliersi fosse meglio che bruciare. Non che saperlo avrebbe migliorato la sua situazione, ma avrebbe voluto consolarsi in qualche modo. Meglio bruciare, concluse, perché è più veloce. Ed invece, nulla di tutto questo: quell'immane calore che gli si era sviluppato sotto, incominciò a sollevarlo, come una minuscola molecola, come una piuma d'uccello, come un frammento di carta così leggero e piccolo da sfuggire nel fumo al fuoco. Prima s'alzò da terra, il suo corpo, lentamente, poi sempre più veloce, tenacemente aggrappato al torciglione di fumo che s'elevava al centro della terra simile ad una tromba d'aria. Ed in men che non si dica si ritrovò in mezzo al cielo che poco fa osservava da lontano, lontano... lontano. Temette però di risalire troppo ed allora tentò d'aggrapparsi al primo batuffolo di nuvola che correva lì nei pressi, ma riuscì soltanto a sfiorarlo e quello si disfece subito, lasciandogli sul palmo della mano una piacevolissima sensazione di freschezza. Pensò: Se le mani ricordano, quale singolarissima memoria avrà, ora, la mia mano. Ma durò ben poco questo suo curioso pensiero, come scostato dall'accelerazione che aveva di nuovo assunto e soppiantato dalla paura di risalire troppo e di finire nello spazio sconfinato. Il suo corpo diventava sempre più rigido ed impacciato, vuoi per la velocità, vuoi per il freddo ed incominciava a disperare di potersi salvare, ma ecco che all'improvviso scorse una nuova, apparentemente solida nuvola che stava per incrociare la sua traiettoria, e riprese il coraggio e tutta la sua forza. Riuscì ad aggrapparcisi e a buttarcisi dentro, grazie ad un'energia e ad una forza che non ricordava d'avere e che attribuì ai vantaggi che l'altitudine conferisce alle prestazioni atletiche. Si ritrovò, dunque, sul fondo di una nuvola a forma di conchiglia, che, vista dall'alto, sullo sfondo desertico, pareva come adagiata sulla sabbia di una spiaggia, mentre vista dal basso sembrava sfilare veloce nelle vaste azzurrità del mare.
Non sapeva più cosa avrebbe potuto fare, ormai, per tornare a terra e oltretutto, così in quota, con l'ossigeno così rarefatto nel cervello, non si reputava davvero in grado di formulare piani ingegnosi. Si sentiva al sicuro, poi, sul fondo di quel morbido cucchiaio e finalmente si rilassò e stette a lungo ad osservare l'infinita teoria di nuvole che gli correvano intorno. Tutt'a un tratto sentì dentro di sé una grande, ingiustificabile allegria. E si mise a ridere, ridere, ridere in modo scomposto ed esagerato, si rotolava e rigirava sul fondo di quella conchiglia di bambagia che sconquassata dai suoi sussulti, ora sembrava una barca che rollava in balia delle onde. Rideva come un bambino a cui si faccia del solletico, così tanto che temette persino di soffocare, ma non riusciva proprio a farne a meno, al punto che rise persino della paura di soffocare, e rise, e rise, e rise. Il cielo venne solcato da un potente raggio di luce, così inatteso che tutto per un breve istante s'interruppe, trattenne il fiato, tacque, ed allo stesso modo anche il suo riso cessò. Sospirò profondamente, e si rimise bello comodo, disteso sul più morbido dei materassi ad osservare le nuvole che passavano sopra di lui. Ormai tutte avevano preso una forma delineatissima, precisa come quella d'un disegno. E potè così osservare il superbo tragitto d'un unicorno, quello sobbalzante d'un coniglietto, poi quello titubante e sospettoso d'uno strano folletto malcelato tra le larghe maglie d'una striminzita foresta di nuvolette sfilacciate, fra gli altri. Ed al passaggio d'ognuno di questi, rideva, rideva ancora ed ancora. Giunse allora una nuvola a forma d'orsacchiotto, quando fu abbastanza vicina lo riconobbe come l'orsacchiotto che aveva da bambino. Questa nuvola, però, al contrario delle altre, non passò oltre ma si scontrò contro quella del nostro sognatore, con essa fondendosi. Alla qual cosa, tra parentesi, lui rise da matti!