Fecondità inutile

Da Salvinsa

Imprevisti inceppamenti da rito di passaggio con mansueti frettolosi e parzialmente disinteressati giudici officianti riuniti in freddo sonnacchioso semicerchio. D'un discorso rovinosamente abortito in tempo di cerimonia, (tuttavia proprio per questo in comunione di spirito con l'incoraggiamento al cortocircuitare di beckettiana e beniana dissennata smemoratezza). Del non riuscire a (voler) compiere quel gesto di cui ci si aspetta l'esecuzione, del non accettare quel compito di cui l'assegnatario è pronto a sentenziare. Mandante del mio stesso passo falso, ormai consegnato al grande mare aperto che segue ogni fine, propongo fuori tempo massimo un offerta agli assenti, compreso in tale onorata cerchia quel me stesso - disatteso e per nulla disteso - che mancava più di tutti.

Della fecondità paradossale dell'inutile (praticato e, così, negato), ovvero al di là dell'utile e dell'inutile, sorpassando in volo un altro manicheo dualismo, guadagnando con la fatica dell'incomprensione un effetto liberatorio, inteso nel senso di una generale ri-considerazione della vita, dalla pratica quotidiana a quella in cui ci si confronta e scontra con la cosiddetta arte, restituendo pari dignità ad ogni fenomeno sonoro, e ad ogni azione, allargando i confini e rigettando i ruoli che il gusto, il soggetto, l'autore, etc. tendono a imporre sull'opera e sull'esistenza stessa.

Praticare l'inutile, slegando l'arte da una serie di funzioni di cui era investita in modo eterodiretto: comunicare in primis, trasmettere un messaggio, farsi comprendere, servire. I suoni, così come le immagini, così come i corpi, non risultano più impiegati alle dipendenze di un'idea.

Cambiando il punto di vista sulle cose: non più antropocentrismo, ma semmai il punto di vista del cosmo, quello che ci ricorda, ricordandoci di come la terra si muova senza sosta sotto i nostri piedi, che anche la nostra identità dovrebbe rotolare in un sempre diverso altrove.

Praticare l'inutile per ri-considerare le categorie interpretative, gli schemi e le gerarchie di valore, gli assoluti, i confini e i limiti. Le leggi, gli errori, le barriere. Liberandosi dagli investimenti libidici che funzionano come agenti polizieschi nei confronti del consentito e del negato. Contro la separazione tra campi compartimentati e segregati di sapere, schizofrenica circolazione delle (ancora una volta mancate) identità.

Per ri-considerare i dispositivi: il medium è non solo il messaggio, ma diventa la metafora e addirittura il corpo sul quale e con il quale si lavora: contro la sintassi, la punteggiatura, le convenzioni stilistiche, la funzionalità dell'alfabeto, c'è ancora da credere che la rivoluzione si possa fare nelle forme.

Per ri-considerare il rapporto di fruizione all'opera, andando oltre i luoghi e i tempi deputati, facendo cadere i criteri valutativi/misurativi e disarmando i giudicanti.

Per ri-considerare il processo costruttivo: lasciar spazio agli eventi sonori così come si presentano, tendendo a prescindere dal gusto personale, dagli interessi, dalle abitudini.

Predisporsi all'esperienza dell'impensabile e dell'inaudito. Essere nell'atto.

Liberando i suoni dal concatenamento logico, dal discorso, dalla relazione causale, dalla subordinazione al discorso e alla retorica degli affetti.

Per ri-considerare il ruolo dell'artista e quello dell'uomo. Liberarsi dal virtuosismo dell'azione grandiosa e dal culto della vedette attraverso azioni e non esclusivamente appannaggio di pochi eletti; attraverso una riconquista del quotidiano, attraverso l'introduzione del non musicale nell'opera, negando l'esistenza del silenzio e confutando le gerarchie pre-stabilite tra suono/rumore.

Liberando l'esecutore dall'obbligo di articolare il minimo dettaglio della sua opera come costrutto di senso. Liberando l'opera stessa dalla rappresentazione, dall'espressione, dalla retorica, dalla causalità e della teleologia.

Scegliendo la non-categoria dell'astratto per la sua impossibile determinazione ad un contenuto preciso, univoco, oggettivo.

”Rovinandosi” e facendo il cretino, sprecandosi e de-pensando.

Spostando l'attenzione dall'inizio e dalla fine dell'oggetto (il risultato), verso un'esperienza il cui esito non è prevedibile e che perciò, in quanto tale, si avvicina all'esperienza della vita.

Praticare l'inutile come definitiva liberazione dalla noia, che, se si riesce a tenere aperte le orecchie e gli occhi, non esiste più, liberazione dal bene e dal male, dal giusto e dallo sbagliato. Liberazione dall'errore. Liberazione dal progresso, dalla memoria e dalla conservazione.

Per liberarsi dall'assolutismo e dall'espressione del sé e dalla volontà del soggetto: noluntas

Liberarsi dall'imperativo della produttività, dal pensiero aziendale fatto di efficienza, di efficacia, di misurazione.

Liberarsi dall'economia come unico criterio valutativo, fallace dato di natura dal quale decondizionarsi: risalire verso il dispendio sociale improduttivo, verso il dono senza speranza di profitto, verso lo spreco “invernale” (il sacrificio, la guerra, il dono di sé) o l'esplosione primaverile (il riso, la comunicazione sessuale, la gioia estatica), pensare l'essere come fuoriuscita dai limiti dell'utilità, fuori dalla compostezza e dalla ragionevolezza.

Sottrarsi alla chiusura progettuale del linguaggio e della produzione: non servire.

Criminalmente, passare dal controllo dell'evasione all'evasione dei controlli.


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