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Fede vuol dire speranza

Da Andrea Venturotti

– Salve, signora Rossi! Come si sente oggi?
– Salve a lei dottore. Mi sento viva.

Claudia Rossi era una donna sulla sessantina che portava addosso i segni di quegli ultimi anni molto intensi. Le rughe erano evidenti ormai alla sua età, ma per lei quelle rughe volevano dire molto di più. Erano la prova di essere ancora lì, nonostante tutto. Nonostante le previsioni. Era ancora viva. E avrebbe lottato fino all’ultimo giorno concesso.

– La parte più bella del mio lavoro è venire a trovare lei. Mi mette sempre di buon umore vedere il suo sorriso. Come fa?
– Con la fede dottore. Fede. Non intendo la fede religiosa, mi conosce. Ma pur sempre fede rimane. Fede vuol dire speranza. Vuol dire alzarsi sapendo che potrebbe essere l’ultima volta che vedi il sole. Vuol dire sapere di trovare gli sguardi di chi ti ama lì pronti ad accoglierti. Vuol dire vedere i miei nipoti correre un giorno in più e imparare una parola nuova. Vuol dire credere in qualcosa anche se non si vede. Ogni giorno in cui riesco ad aprire gli occhi, per me, è una vittoria. E’ un giorno nuovo tutto da vivere. Quando capisci, veramente, che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, tutto ti diventa più chiaro. 

Fu così che il dottor Bianchi rimase freddato. Non era il primo paziente terminale di cui si occupava. Ma questa, in particolare, aveva qualcosa di diverso dalle altre. O, forse, in più. Aveva una luce così forte che emanava dagli occhi in grado di illuminarti l’intera giornata. Gli altri pazienti che aveva incontrato, lungo il suo cammino professionale, erano vuoti. Dentro gli occhi ma anche fuori. Sapeva bene che ognuno reagisce a suo modo al dolore, alle terapie, ai farmaci…. ma lei era unica. Aveva sempre quella voglia di fare e mai di lasciarsi andare, cercava di impiegare al meglio il suo tempo e la sua mente. Amava la sua famiglia e la sua famiglia amava lei.
“Hai due soluzioni: ti lasci mangiare completamente dal mostro, dentro e fuori, oppure ci impari a convivere.” Questo è quello che ripeteva spesso Claudia a chiunque volesse sapere della sua storia. Era diventato il suo motto. Perché così lo chiamava, mostro. E, in effetti lo ora eccome. Ognuno ha i suoi mostri da combattere ed il suo era il tumore. Ormai non si faceva abbattere più da niente, fino al giorno in cui il suo corpo non avrebbe più reagito. Era talmente abituare ad entrare ed uscire dalla sala operatoria che, ormai, era il suo secondo “letto”. La paura c’era sempre. Era umana anche lei, come il resto dei pazienti. Ma, in qualche modo, la prendeva con leggerezza. Erano tanti, forse troppi, anni che spuntavano in continuazione tumori. Il primo le colpì un rene che dovettero asportare. Il secondo si andò a stanziare in un polmone che, però, non fu necessario operare. Fu preso in tempo e attraverso un lungo ciclo di chemio riuscì a sconfiggerlo. Il terzo si insediò dentro la sua testa. Ci volle un po’ di tempo prima che, il chirurgo, capisse cosa fare. Il rischio era grosso sia rimanendo fermi che intervenendo. Claudia insistette per intervenire. Voleva la testa libera, in tutti i sensi. Allora si fece coraggio e buttò giù anche quel muro fatto di paura, sconfiggendo, ancora una volta, il mostro. Ma il brutto di questi mostri è che appaiano e scompaiano quando vogliono, quando meno te lo aspetti. E, a Claudia, successe proprio così. Pensava di essersi lasciata alle spalle quest’ultimo quando, qualche mese dopo l’ultima operazione, venne ricoverata d’urgenza: a causa di un mancamento andò a sbattere la testa contro il tavolino. Per fortuna, non fu nulla di grave quella caduta. Ma, tra un controllo e una visita, si venne a scoprire che, il mostro, era rispuntato fuori.
Nelle ultime settimana si era trasferita in ospedale. Era continuamente sottoposta a controlli, visite, analisi… Tutto per essere certi e sicuri che tutti i valori fossero in regola per l’operazione a cui si sarebbe dovuta sottoporre a breve.

– Se ha bisogno di qualcosa non esiti a suonare il campanello. Intesi?
– Ma certo dottore. Non si preoccupi, ora ho intenzione di riposare un po’. A domani.
– A domani.

Fu così che il dottore uscì dalla stanza, chiuse la porta e spense la luce, lasciando da sola Claudia. Ma non era sola, c’erano una miriadi di pensieri a tenerle compagnia. Guardò fuori dalla finestra e vide la luna di fronte a se: una luna piena, bianca splendente più che mai. Forse era un segno, forse no. Fatto sta che ripose un po di fede anche a quell’evento singolare. Posò la testa sul cuscino, tirò su le coperte e, tra sé e sé, accennò la frase di una canzone: “Dai che domani uscirà il sole…”.

E, fu così, che passò la notte ad attendere l’arrivo di un nuovo giorno, per assicurarsi di vedere, ancora una volta, sorgere il sole.

Fede vuol dire speranza


Quinto racconto presente in Lifestories. In questa raccolta, come ripeto ogni volta, sono presenti racconti nei quali esprimo il mio punto di vista su storie di cui ho sentito parlare, altre che ho visto ed altre ancora vissute in prima persona. In questa storia ho provato, o almeno ho cercato, di trasmettere il punto di vista di una persona che lotta contro un mostro sottolineando il fatto che, in certi momenti, aggrapparsi alla fede (intesa come speranza di vita) sia fondamentale. Ho conosciuto qualche persona che, purtroppo, è passata a miglior vita per questo mostro e, quindi, questa storia la dedico a loro e a tutti quelli che continuano a lottare dimostrando il vero valore della vita.

A presto,
tra una riga e l’altra.

Rif



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