La corruzione nasce dai primi principii. Un preticciolo s’accosta ad un fanciullo, e comincia ad impadronirsi dell’anima di lui. Cerca di prevenire la ragione quanto è possibile, ed innestargli nella memoria delle parole prima che il fanciullo possa avere delle idee. Queste parole sono da credersi, da non intendersi mai, da non esaminarsi; e guai se il fanciullo ne dubita! S’impallidisce il prete, i parenti rimangono attoniti, il fanciullo si vede diventato un oggetto d’orrore. ”Fede, fede, fede” fanaticamente gli si grida all’orecchio; ed il fanciullo nelle cose più necessarie della vita avvenire, della morale, della cognizione dei propri doveri, invece di essere invitato a ragionare, a formarsi de’ principii , a dedurne delle conseguenze pratiche, invece di ciò, sgomentato, stordito impara a fuggire ogni esame con ribrezzo e a obbedire ciecamente al prete. Crescendo nell’età, sempre più si va rinforzando questa schiavitù dell’intelletto. Il prete sopra di ogni cosa va ripetendo ”fede e fede cieca”, indi impone vari esterni esercizi di religione, ascoltar messe, recitar rosari, visitar chiese, mangiar magro. Che il fanciullo poi nelle sue azioni sia nobile o vile, generoso o interessato, sincero o simulato, sensibile o crudele, questo niente si cura, pur che si pieghi alle pratiche esterne. Rubare, tradire, assassinare, avere un desiderio venereo, son tutti peccati classificati nel medesimo ordine di mortali nella mente di quel giovane; onde, poiché si trova nella necessità di essere peccatore, niente v’è di assurdo fra la scelta di uno di questi. Ecco in qual modo l’italiano viene allevato ai delitti”. (Meditazione su: ” L’istruzione religiosa nel 1700 ” di Pietro Verri).
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A R G O
Un cane,
che lì accanto giaceva, levò d’improvviso
la testa e le orecchie: era Argo,
il cane dell’intrepido Ulisse; da Ulisse
un tempo allevato, senza prenderne gioia,
prima che verso la sacra Ilio salpasse;
solevano i giovani a caccia di capre selvatiche
e di lepri e di cervi condurlo in passato;
adesso, lontano il padrone, giaceva negletto
su molto letame di muli e di bovi davanti
all’uscio ammucchiato, che i servi prendevano
e davano poi per concime ai campi d’Ulisse.
Qui dunque Argo giaceva, pieno di zecche.
E appena s’accorge di Ulisse vicino,
dimena la coda, abbassa le orecchie,
ma forza non ha di accostarsi al padrone;
e Ulisse, altrove guardando, s’asciuga una lacrima
non visto da Eumeo. E subito chiese:
”E’ strano, Eumeo, che un simile cane
stia lì sul letame. E’ bello; e non so
se con tale bellezza corresse veloce
o se fu solamente un buon cane da mensa,
di quelli che i principi allevano per pura bellezza”.
E tu, Eumeo porcaro, così rispondevi:
”E’ il cane questo di un uomo morto lontano.
Se ancora egli fosse d’aspetto e di forza
quale qui lo lasciò nel partire per Troia
Ulisse, stupito staresti a guardarne l’agile moto.
Animale, ch’egli vedesse, non poteva sfuggirgli
neppure nel cuore di selva profonda:
tanto era fino di fiuto. Sventura l’ha colto,
lontano è morto il padrone; e le ancelle
indolenti più non lo curano: i servi,
non più dai signori guardati, lascian di fare
quello che devono. Zeus che tutto contempla,
distrugge d’un uomo metà del suo pregio,
se un giorno lo rende schiavo il destino”.
Quand’ebbe parlato così entrò nel palazzo
splendido; e andò nella sala fra i nobili Proci.
Ed Argo, il cane, assopito fu dalla nera
morte per sempre, poi ch’ebbe d’un tratto
Ulisse rivisto, dopo vent’anni.
- O m e r o -