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Poi però c'è questa cosa che penso si possa chiamare ideologia, è l'humus, la cultura, il b.
Samuele Yannick frequenta la scuola materna, le sue maestre sono meravigliose. Però sono - appunto - maestre, donne, come se l'istituzione stesse dicendogli una cosa precisa: la cura dei bambini è roba da donne. Quanto vale essere una persona aperta, egualitaria, rincorrere un'idea di paternità dolcemente visionaria di fronte al fatto che non esistono maestri (maschi) di asilo nido o scuola materna (eh già, perché non è nemmen pensabile chiamarla scuola "paterna")?
Cosa gli sta inculcando questa benedetta società? E domani alla scuola primaria (fu elementare)? Cosa gli comunicherà la scuola come istituzione? Non è che finirà con il tentativo di formare persone in grado di riconoscere e obbedire all'autorità, in competizione con i propri pari?
E l'idea (ideologia!) di cooperare, tutti uguali, tutti assieme, per traguardi che non siano esclusivi ma inclusivi?
In una società in cui il valore che permea qualsiasi cosa si chiama mercato, il concetto stesso di cooperazione è un concetto debole, di seconda fascia.
Come posso io intervenire su tutto questo? Come posso aiutare mio figlio a comprendere che il successo, la performance, la competitività non sono tutto? Che una persona non è solo quella roba lì? Come aiutarlo a fare luce sulla bellezza dell'idea di uguaglianza o sul sublime che può esserci in qualcosa di non-produttivo? Come, se spesso anche a tavola sente me e Paola che ci lamentiamo delle scarse performance di questo o quel collega?
Il fatto è che questo humus sarà determinate per la sua felicità e per le sue frustrazioni. Questo humus contribuisce alla sua definizione di felicità. Cazzarola, ho il dovere di fare qualcosa!
Nel corso dei millenni, di felicità han discusso e speculato filosofi e psicologi, fino ad arrivare a una delle bassezza più devastanti per la storia del pensiero: anche gli ospiti del marito di Maria de Filippi hanno pubblicamente discettato intorno all'idea di felicità.
Ok, ma di cosa si parla quando si ragiona di felicità?
A me è cara la psicologia - deformazione curriculare - e mi si stampa in testa subito, così, al volo, la piramide di Maslow. Possiamo pensare che sia comunque frutto di un humus occidentale e dominante ma sinceramente il buon vecchio non è che ci sia andato tanto lontano: corpo, prospettive, relazioni, realizzazione, successo.
La filosofia si è divisa fra eudemonia, benessere interiore, virtù, atarassia, bene, morale, giustizia, utilitarismo... Grandi idee che a leggerle e approfondirle mi lasciano sempre un po' insoddisfatto. Sì, per me meglio un po' di psicologia.
La sua felicità è per me un chiodo fisso ma non è un'ossessione. È un chiodo fisso perché spesso mi dice, con quella lucidità da adulto che mi lascia senza respiro "Papà, io mi sento una tristezza che non so cos'è". Capita la sera, allo spegnersi della luce. Lo so, c'ho questa laurea in pedagogia che dovrebbe aiutarmi a comprendere quanto questa tristezza sia altro e non tristezza o spleen, però il cuore mi si svalvola ogni volta, non posso - in onestà - tacere l'effetto che mi fa la sensazione precisa che in quei momenti i miei abbracci siano un lenitivo solo parziale perché anche quella tristezza lì ha comunque radici profonde.
Poi grazie al cielo c'è il sole e di giorno mi sento dire una cosa che nella sua immanenza scarta e supera tutte le seghe mentali dei filosofi:
"Papà sono proprio felice"
"Raccontami"
"I muratori che hanno rifatto il tetto alla casa del nonno mi hanno lasciato tenere il cartello con scritto 'divieto di accesso al cantiere'. Papà, sono proprio fortunato!".
Ecco, alla fine di tante domande è - al solito - lui a suggerire la risposta: stupore, semplicità.
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