Sto frequentando una Summer School in Cultural Studies, precisamente sul tema Critica/Crisi. La scuola internazionale - di fatto, non di nome, data la nazionalità di molti corsisti, oltre che dei relatori - ha come riferimento il dottorato in Cultural Studies e, in particolare, il progetto si riconduce alle molteplici attività del Prof. Michele Cometa.
Ammetto che, mai come in questa occasione, ho sentito fortissima la mia matrice culturale di classicista, anomalo quanto si vuole, ma pur sempre classicista. Finora ho assistito alle lezioni di Viktor L. Stoichita, Università di Freiburg, CH, con un paper dal titolo Viseità e modernità, con lo stesso Michele Cometa quale discussant; di Alberto Moreiras, Texas A&M University, con la relazione dal titolo Historically and Historiography: Haiti and the Limits of the World History (con Vittoria Borsò quale discussant); e Félix Duque, Universitad Autónoma de Madrid, con un discorso dal titolo L'utopia in altro modo (o Elogio della mobilizzazione), Iain Chambers era il discussant. Sebbene l'impianto culturale della Summer School mi sia culturalmente alieno, la crisi della struttura accademica delle conoscenze è già insita nei progetti della scuola, come si è più volte ripetuto. Per cui spero che relatore (che si definisce un metafisico) e partecipanti che dovessero capitare su queste pagine mi perdonino e mi aiutino a correggere imprecisioni ed errori. In particolare, dev'esser chiaro da subito, che la relazione è ricchissima di riferimenti filosofici che io non ho la minima competenza per raccogliere qui. Ciò che prendo dalla relazione di Duque riguarda il mio discorso, quello che porto avanti in questo blog per ora: è solo per questo che non cedo al silenzio a cui dovrebbe costringermi una disciplina che non mi appartiene.
Félix Duque ha presentato un paper di sedici pagine a stampa, arricchite da numerose osservazioni personali, da un'energia e da una simpatia inesauribili, e dal contributo entusiastico dei presenti. Io, tuttavia, esporrò in brevissimo spazio il suo discorso, perché mi interessa porre qui delle domande.
Duque riconduce il passaggio dalla società dello sviluppo e della prosperità, una vera Civitas Mundi, alla società del rischio e della paura non a un evento in particolare, che ancora forse ha da manifestarsi, bensì a una mobilizzazione dalla e dalla tecnologia. Una crisi della Mobile Age legata strettamente all'Information & Communication Technology. La definizione di tecnologia qui proposta consiste in un interscambio o feedback continuo tra logica numerico-linguistica e tecnica, ovvero tra le tecniche di produzione e le masse su cui insistono. Ciò è reso possibile dalla nanotecnologia che consente al mezzo di includere, già in fase di progetto, la natura mobile dell'utente. Lo studioso ne deriva ciò che chiama una Mobile Ontology: "la rivoluzione nella base ontologica e la rivoluzione della base sociologica". La sostanza verrebbe sostituita da una situazione e dunque con una simultaneità de-spazializzata.
Duque insiste molto sull'interazione tra old e new media: il punto, infatti, è che i nuovi media non vengono dal nulla, ma si innestano in una società già avvezza ai vecchi (e, aggiungerei io, a velocità diversa a seconda del grado di consuetudine del milieu sociale alla tecnologia sorpassata, con tutte le casistiche possibili). L'esito è quello di una sinestesia, più o meno ciò che oggi noi chiamiamo multimedialità, da un lato, e quello di un Apparatgeist - Spirito della macchina ("sociale") - dall'altro.
Così si manifesta il postfordismo - "una produzione prevalentemente improduttiva" (per cui lo studioso fa riferimento alle opere di Paolo Virno) - che si realizza attraverso un consumismo che può essere applicato anche alla vita, quasi che essa stessa fosse un prodotto da gustare, di cui godere. Ma è proprio ciò che porta all'annullamento di senso e di tensione nei confronti delle utopie, perché le utopie di uguaglianza - ridotte all'individuo - sembrano realizzarsi inesorabilmente per la società nel suo insieme. D'altra parte l'utopia, che Duque definisce attraverso Bronislaw Baczko, si configura come autre: altra organizzazione sociale, altra struttura, altra quotidianità. Uno strano paradosso per cui l'uomo individua un paradiso da cui si autoesclude, confinandolo oltre se stesso; e il se stesso è proprio la misura di quest'utopia. Da questo dualismo tra uomo e utopia derivano due possibilità: un'utopia che rimane altro, un'utopia statica, che genera una profonda dialettica e che si fonda su una soluzione di continuità (più o meno esplicitamente religiosa) e in una coscienza drammatica dell'eterotopia (consapevolezza dell'essere in un altro luogo, consapevolezza di un'esclusione); e un'utopia della mobilizzazione, un'utopia dell'attivismo, del chiedere l'impossibile quale esempio di ragionevolezza.
Io qui lascio Duque, che prosegue in una direzione per me ancor più impervia e mi soffermo su alcune domande che mi sono posto. Domande astratte, lo so, ma che tradiscono, forse meglio di altre, il mio discorso che qui e altrove provo a portare avanti.
Intanto, che tipo di verbo usiamo per un non-luogo: un verbo di movimento o un verbo di stasi? L'utopia - come fine - a me fa pensare immediatamente a un momento in cui la tensione si dissolve, il movimento si arena nell'immanenza della sua soddisfazione: c'è il rischio di confondere l'utopia con una secca un po' più avanti e tutto il cammino per raggiungerla come un saltare di secca in secca. Kavafis in Itaca identifica l'isola di Ulisse come la ragione del viaggio, ne dà un'immagine dinamica, ed è per questa sua alterità che mi affascina, perché mi smentisce. Un'immagine dell'utopia in altro modo, per riprendere la formula di Duque, è conforme alle premesse qui poste, ovvero al principio di un'utopia senza spostamento, perché si tratta di collocare questo non luogo da qualche parte, qui o oltre una linea che li definisca. Ma mi vien da pensare: dei non-luoghi - quali sono etimologicamente le utopie - fanno fatica a entrare in un mondo che non attribuisce più un valore al concetto stesso di luogo (per cui si smarrisce anche il concetto di eterotopia). La delocalizzazione non è solo un concetto geografico, ma la presa d'atto di un'esistenza da apolide, una perdita dello statuto di cittadino, dell'essere monconi di noi stessi.
L'utopia, infine, è desiderio o realizzazione dello stesso? Se è realizzazione, è anche termine del desiderio? Se così fosse, il passo verso la prigionia in un desiderio passato sarebbe drammaticamente breve. A meno che il fine del desiderio non fosse anche il suo termine, com'è auspicabile, non fosse la soddisfazione di un appetito che dopo ritornerà più o meno uguale, bensì un salto quantico, chiamiamolo così, da desiderio a piacere, a volontà del piacere.
(Continua, in qualche modo. Più o meno.)
Il programma completo della manifestazione Critica/Crisis lo si trova al seguente indirizzo.