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Un tempo motore non immobile, anche discutibile ma sempre vivacemente dialettico, della rivoluzione sociale e sessuale dei mitici anni Sessanta e Settanta, il femminismo ai giorni nostri sembra ormai defunto.
Eppure sappiano, coloro che non riescono proprio a consolarsi per la pericolosa latitanza di valide idee di stampo femminista, che esiste una compagine di donne ucraine che la recente rielezione di Putin ha posizionato nell’occhio del ciclone: si tratta delle Femen, sorta di novelli city angels al femminile che propugnano, o quanto meno sono convinte di farlo, «l’aggregazione delle giovani donne» attraverso «la consapevolezza e l’attivismo sociale nonché lo sviluppo culturale e intellettuale», che intendono proporre un’espressione di sé «basata su coraggio, creatività, efficienza» nonché sull’immancabile «shock» che ai tempi nostri è ingrediente fondamentale di ogni protesta che si rispetti.
Belle, molto bionde, giovani e tatuate, le signorine di Femen si autoproclamano il maggior gruppo femminista dell’Ucraina e si pongono l’ambizioso obiettivo di diventare il movimento femminista più influente in Europa. E ai seggi presidenziali in Russia le suddette femministe in jeans attillati si sono prodotte nell’ormai consueta protesta che le ha viste entrare vestite, spacciandosi per giornaliste, per poi esporre il seno nudo imbrattato di lodevoli scritte antipresidenziali di fronte alle solite onnipresenti telecamere.
Le suffragette in topless non sono nuove a questo genere di azioni; ma c’è di più: questa singolare forma di protesta è addirittura istituzionalizzata dalle Femen, il cui slogan suona pressappoco come «venimmo, ci spogliammo e vincemmo», e impiegata a più non posso da donne tutte giovani, tutte graziose, tutte snelle e tutte sexy, insomma delle perfette Winx caucasiche, supereroine interstellari coi capelli al vento che testualmente si battono come novelle amazzoni per «creare le condizioni più favorevoli affinché le giovani donne possano unirsi in un gruppo la cui idea principale è il mutuo sostegno e la responsabilità sociale, e che riveli i talenti di ciascun membro del movimento». Quali siano questi talenti è stato ampiamente mostrato ai seggi delle presidenziali sovietiche, con o senza piercing al capezzolo.
Niente di male, beninteso, a mostrare il seno in un gioco che per molte donne può essere anche divertente e addirittura piacevole: ma se tutto ciò è femminismo, allora il morto di cui sopra è stato tramutato in zombie. Uno zombie cui non resta, viste le grazie delle novelle femministe prêt-à-porter del terzo millennio, che rincorrere le signorine ucraine con la bava alla bocca come nel miglior filone dark del Bela Lugosi d’annata per poi ritrovarsi impalato giusto in mezzo al petto, un petto non più giovane e dove il seno ormai è cadente, e battere infine in ingloriosa ritirata verso il dissacrato cimitero.
Mano pietosa che poni un fiore sulla tomba del defunto femminismo, benignamente provvedi, già che ci sei, anche alla lapide di tutte le giovani donne il cui modello di lotta femminista è costituito dallo spogliarello di protesta di ragazzine che somigliano alle Barbie (o meglio alle Bratz), hanno un nome più adatto ad una band di lesbo-rock che ad una compagine di pasionarie e vestono Pinko, Guess e Miss Sixty: degli anni d’oro del femminismo non sono rimasti che i jeans. Amen.
Pardon, Femen.
Eppure sappiano, coloro che non riescono proprio a consolarsi per la pericolosa latitanza di valide idee di stampo femminista, che esiste una compagine di donne ucraine che la recente rielezione di Putin ha posizionato nell’occhio del ciclone: si tratta delle Femen, sorta di novelli city angels al femminile che propugnano, o quanto meno sono convinte di farlo, «l’aggregazione delle giovani donne» attraverso «la consapevolezza e l’attivismo sociale nonché lo sviluppo culturale e intellettuale», che intendono proporre un’espressione di sé «basata su coraggio, creatività, efficienza» nonché sull’immancabile «shock» che ai tempi nostri è ingrediente fondamentale di ogni protesta che si rispetti.
Belle, molto bionde, giovani e tatuate, le signorine di Femen si autoproclamano il maggior gruppo femminista dell’Ucraina e si pongono l’ambizioso obiettivo di diventare il movimento femminista più influente in Europa. E ai seggi presidenziali in Russia le suddette femministe in jeans attillati si sono prodotte nell’ormai consueta protesta che le ha viste entrare vestite, spacciandosi per giornaliste, per poi esporre il seno nudo imbrattato di lodevoli scritte antipresidenziali di fronte alle solite onnipresenti telecamere.
Le suffragette in topless non sono nuove a questo genere di azioni; ma c’è di più: questa singolare forma di protesta è addirittura istituzionalizzata dalle Femen, il cui slogan suona pressappoco come «venimmo, ci spogliammo e vincemmo», e impiegata a più non posso da donne tutte giovani, tutte graziose, tutte snelle e tutte sexy, insomma delle perfette Winx caucasiche, supereroine interstellari coi capelli al vento che testualmente si battono come novelle amazzoni per «creare le condizioni più favorevoli affinché le giovani donne possano unirsi in un gruppo la cui idea principale è il mutuo sostegno e la responsabilità sociale, e che riveli i talenti di ciascun membro del movimento». Quali siano questi talenti è stato ampiamente mostrato ai seggi delle presidenziali sovietiche, con o senza piercing al capezzolo.
Niente di male, beninteso, a mostrare il seno in un gioco che per molte donne può essere anche divertente e addirittura piacevole: ma se tutto ciò è femminismo, allora il morto di cui sopra è stato tramutato in zombie. Uno zombie cui non resta, viste le grazie delle novelle femministe prêt-à-porter del terzo millennio, che rincorrere le signorine ucraine con la bava alla bocca come nel miglior filone dark del Bela Lugosi d’annata per poi ritrovarsi impalato giusto in mezzo al petto, un petto non più giovane e dove il seno ormai è cadente, e battere infine in ingloriosa ritirata verso il dissacrato cimitero.
Mano pietosa che poni un fiore sulla tomba del defunto femminismo, benignamente provvedi, già che ci sei, anche alla lapide di tutte le giovani donne il cui modello di lotta femminista è costituito dallo spogliarello di protesta di ragazzine che somigliano alle Barbie (o meglio alle Bratz), hanno un nome più adatto ad una band di lesbo-rock che ad una compagine di pasionarie e vestono Pinko, Guess e Miss Sixty: degli anni d’oro del femminismo non sono rimasti che i jeans. Amen.
Pardon, Femen.
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