Con questo articolo vorrei riprendere il tema dell’analisi dei sentimenti, tra cui in particolare mi rivolgo al sentimento per eccellenza, il sentimento amoroso della coppia, inteso come momento di incontro con l’altro, di esaltazione della mescolanza, di perdita del sé, di riflessione del sé e dell’altro, di consapevolezza e accettazione del reale, di cambiamento continuo metafisico e fisico, di comprensione del tempo e di progettazione del futuro, secondariamente annesso all’importanza e all’arte dell’insegnamento.
Sono quelle sopra citate le complesse fasi che interessano ed accompagnano ogni fenomeno di innamoramento quando per innamoramento si intende l’incontro di due persone che si rivelano e si scoprono essere fatte l’una per l’altra.
Per deduzione a questo principio cardine ed universale che riguarda il sentimento amoroso, non può essere detto amore tutto quello che fuoriesce da questo schema, da questa griglia, da questo puntiglioso tracciato.
Possiamo ben comprendere perché migliaia e migliaia di rapporti finiscono anche dopo brevissimo tempo, o anche dopo un lunghissimo tempo, o finiscono nonostante eccellenti premesse, o non riescono a decollare nonostante eccellenti condizioni, o ancora, non si evolvono come dovrebbero evolversi, cadendo in forme di pseudo amore, dove la coppia è solo apparenza più che sostanza, o dove la coppia è compromesso, o convenienza, o ragion di stato, o abitudine, o incapacità all’esercizio della verità. O infine resistono e si rinsaldano tenacemente nonostante prove innumerevoli e di lungo percorso…
Ecco la prima condizione che il sentimento amoroso incontra e richiede: il suo essere vero, il suo essere assoluto, il suo aspirare alla bellezza, il tendere al miglioramento continuo, il suo volersi proteggere da ogni possibile contaminazione, il suo sapersi donare dentro il cerchio e fuori del cerchio relazionale, il suo esigere chiarezza, il suo essere onesto e sincero, umile e modesto, giocondo e spensierato, geloso e fiducioso, gentile e coraggioso, intelligente e riflessivo.
Prima condizione dell’essere innamorato è dunque avere la possibilità, occasione, fortuna, contingenza che dir si voglia, di incontrare la persona giusta.
Ci si può chiedere con ragione come sia possibile riconoscere con certezza la persona che dovrebbe essere fatta per noi. Questa è la prima enorme difficoltà. Se si sbaglia questo preliminare, che oltretutto capita accidentalmente perché non può essere in alcun modo pianificato, si sbaglierà poi conseguentemente tutti i passaggi successivi.
Non sapere riconoscere la persona giusta, o non saperla scegliere, sono errori di una tale gravità ed imperdonabilità che vengono pagati con un prezzo altissimo, ben peggiore di qualunque perdita finanziaria, anche la più disastrosa, come di qualunque perdita d’immagine.
Forse questa sconfitta è meno visibile, è meno conclamata, è meno soppesata dal sistema sociale in cui ci troviamo immersi, ma vive ed impera nel tessuto interiore delle persone, dei singoli, degli individui, che a loro volta costituiscono la nostra società.
E’ come se noi fossimo calati in un contesto urbano o non urbano che tiene conto del nostro conto in banca, del nostro aspetto fisico, del nostro lavoro e della nostra rete relazionale, ma non tiene in minimo conto la nostra vita privata forse proprio perché privata e dunque appartenente alla sfera del non detto, del taciuto, del riservato.
Chiariamo allora subito in che senso il privato è privato e tale deve rimanere, e in che senso il pubblico è pubblico e deve essere funzionante al privato e viceversa.
L’essere, l’io, la persona, il singolo, come infine l’individuo, è fatto di questa mescolanza: ha una suo sentire interiore ed un suo essere calato nel mondo quotidiano che si interfacciano e non si scindono mai spontaneamente.
L’armonia, l’integrazione, l’equilibrio, la complementarità di queste due sfere che sono concentriche costituiscono il presupposto della felicità.
Che vuol dire che non basta la coppia a determinare la propria felicità, perché la coppia stessa vive nel sociale, vive nella pluralità del tutto, necessita del suo inserimento in tale sistema condiviso; ecco perché il privato, che tale deve rimanere, ha comunque un peso enorme per il benessere del pubblico.
Facciamo esempi concreti: abbiamo avuto un litigio o uno scontro con il proprio compagno, e diventiamo intolleranti o nervosi anche sul posto di lavoro con i propri colleghi o con chi avremo la sventura di incontrare.
Non che ci inventiamo occasioni di scontro, semplicemente reagiamo alle normali situazioni critiche che incontriamo nel modo peggiore, per il verso meno favorevole, con un atteggiamento di chiusura e di critica distruttiva o impietosa.
In condizioni psichiche e personali diverse certamente reagiremmo in modo differente.
Così come tutto il sistema pubblico si appoggia sulla consistenza del sistema privato, anche lo sviluppo del sapere e lo sviluppo del sociale si appoggiano sulla nostra personale capacità di costruire relazioni personali.
Da questo risaputo principio si può dedurre che se il sistema pubblico e sociale non funziona è perché non funziona il nostro sistema privato, ossia non funzionano i singoli che non sanno costruire le proprie vite in maniera funzionante, efficace e costruttivista.
Sorge spontanea la domanda: ma c’è un sapere, un corso di laurea, che insegni alla vita? Che insegni la vita? Abbiamo i corsi di psicologia, di sociologia, di filosofia, di teologia, ma non abbiamo corsi di studio della vita, della vita reale e quotidiana, che a sua volta è una mescolanza di tutti questi saperi.
Sarebbe interessante, perché no, che qualche università si interessasse di questo argomento; le domande oggetto di ricerca potrebbero essere molteplici, per esempio: perché gli uomini (nel senso delle persone) interrompono legami matrimoniali ormai consolidati nel tempo? Perché gli uomini amano avere relazioni extraconiugali? Perché gli uomini si sposano con estrema leggerezza o evitano il matrimonio come se fosse la peste? Perché i figli sono lo specchio parziale della coppia? Perché la società non difende e tutela adeguatamente la famiglia che è la sua perla più preziosa? Perché tra genitori e figli è sempre esistito il cosiddetto conflitto generazionale? Perché gli equilibri di coppia si raggiungono attraverso percorsi ad ostacoli che fuoriescono e si sottraggono ad ogni genere di giudizio definitivo?
Quanti argomenti, quanti aspetti, quanti angoli sconosciuti e misteriosi che potrebbero essere fonte di saperi estremamente utili e produttivi.
Vorrei collegare questo mio argomentare ad uno studio che sto facendo sul Dire la pratica all’interno di un eccellente studio di ricerca iniziato presso l’Università di Verona da giovani e meno giovani ricercatori che si vogliono occupare dell’arte dell’insegnamento, arte antica quanto sconosciuta nel senso di mai indagata come prassi.
Si è appena concluso il convegno intitolato a questo tema delle narrazioni didattiche il 12 novembre scorso; erano presenti in sala presso lo storico edificio di Via Cantarane le migliori eccellenze universiterie del settore internazionali e non, l’aula era gremita tanto che abbiamo dovuto cambiare la stanza per potere dare a tutti i presenti la possibilità di sedersi…(molti giovani studenti che forse un giorno saranno insegnanti migliori di come lo siamo stati noi nel passato anche grazie a questa preziosa risorsa aggiuntiva che la ricerca ha saputo mettere in campo nonostante la crisi e nonostante le cattive politiche finanziarie…)
I corsi di laurea hanno da che mondo e mondo una impostazione teoretica/astratta. Il saper fare, l’arte del creare, dell’improvvisare, dell’interagire nell’attimo e sull’attimo attraverso le ordinarie occasioni di vita, sono sempre state oggetto di silenzio e di disattenzione, per non dire di sminuimento.
L’insegnante fino a poco tempo fa è sempre stato colui che possiede il sapere delle parole intese nella loro concettualizzazione , che possiede il sapere dei contenuti oggettivi; dopo alcuni anni in cui si è dato spazio a valenti ricercatori e ricercatrici che hanno cominciato ad occuparsi del come, del verso chi e del perché si fa didattica (e non più del quando o del dove o del su che cosa…) si è scoperto che anche e soprattutto il mestiere di insegnante ha bisogno della sua prassi, cioè della sua narrazione delle pratiche didattiche.
Questi esperimenti d’aula anzichè di laboratorio vanno scritti, vanno osservati, vanno conservati, vanno documentati, esattamente come si farebbe con un problema di carattere prettamente scientifico. E naturalmente indagati con metodo scientifico, con rigore, con fedeltà, con attenzione verso l’altro, visto che qui si ha a che fare anche nella fase iniziale e non solo in quella finale con esseri umani, con soggetti viventi, con vite che pulsano e chiedono di continuare a pulsare migliorando la qualità della loro vita.
I medici hanno il racconto dei loro casi clinici, gli avvocati hanno il racconto dei loro casi giudiziari, l’architetto ha il racconto delle sue costruzioni architettoniche, tutti accedono normalmente agli archivi di loro competenza…solo per gli insegnanti si è sempre dato per assodato che avessero già acquisito in sé l’arte del saper insegnare, magari solo per avere fatto qualche settimana di stage sul campo, cosa assolutamente non vera e non certa, non precostituita e predata.
Questo volume, Dire la pratica, edito da Bruno Mondadori, è l’excursus di un team che ha saputo incontrarsi (qui non c’è la coppia ma c’è il gruppo), che ha saputo incontrare (qui non c’è la società genericamente intesa ma un tassello della società stessa, quella che riguarda nello specifico il mondo della formazione) , che ha saputo porsi delle domande utili e preziose a cui finalizzare la propria ricerca (come si insegna? Esiste un metodo valido sempre e comunque? Cosa varia e cosa non varia? Quanto conta la soggettività del docente?…), che ha voluto (sempre per riprendere il legame stretto tra sapere, volere e potere) essere un’occasione di aiuto e di sostegno ai docenti che ogni giorno si trovano a combattere sul campo come se andassero in trincea, più preoccupati loro malgrado e per loro mortificazione, di portare a casa la pelle che di portare a casa conquiste.
Se poi si pensa che queste conquiste non sono altro che il benessere psico-fisico, spirituale ed intellettivo i nostri figli, dei figli che nasceranno dai nostri , e così discorrendo, si può ben comprendere l’urgenza, la gravità, la sostanzialità, la vitalità ed il vitalismo di questa riflessione.
Mi riservo di riprendere questo tema ambivalente e strettamente legato a mio avviso, tra l’essere una persona felice e l’essere un buon insegnante, quando avrò acquisito maggiori elementi oggettivi e soggettivi per potere tornare sul tema.
Anch’io sono una neofita, anch’io sono una che è arrivata come molti altri per ultimo, per la mia gigantesca inesperienza forse non avrei nemmeno diritto di parola, ma è pur vero che se non ho una lunga esperienza come insegnante, ho però una lunga esperienza di vita vissuta sempre all’interno del sistema scuola e sempre all’interno del sistema società. Ovviamente non solo di vita vissuta, ma anche di vita metariflessa, condivisa, discussa, osservata…
Nel frattempo già in queste poche parole sono emersi, a mio modesto parere, spunti di riflessione con cui lascio il lettore a certe proprie valutazioni.
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