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Fenomenologia di un sentimento, fenomenologia di un mestiere

Creato il 14 novembre 2010 da Dallomoantonella

 

Con questo articolo vorrei riprendere il tema  dell’analisi dei sentimenti,  tra cui in particolare mi rivolgo al sentimento per eccellenza, il sentimento amoroso  della coppia,  inteso  come momento  di incontro con l’altro, di esaltazione della mescolanza, di perdita del sé, di riflessione del sé e dell’altro, di  consapevolezza  e accettazione del reale, di cambiamento  continuo metafisico e fisico, di comprensione del tempo e di progettazione del futuro,  secondariamente annesso  all’importanza e all’arte dell’insegnamento.

Sono quelle sopra citate   le complesse fasi che interessano ed accompagnano   ogni fenomeno di innamoramento quando per innamoramento si intende l’incontro di  due persone che si rivelano  e si scoprono essere fatte l’una per l’altra.

Per deduzione a questo principio cardine ed universale  che riguarda il sentimento amoroso,  non può essere detto amore tutto quello  che   fuoriesce da questo  schema, da questa griglia, da questo puntiglioso tracciato.

Possiamo  ben comprendere  perché migliaia e migliaia di rapporti  finiscono anche dopo brevissimo tempo,  o anche dopo un lunghissimo tempo, o finiscono nonostante eccellenti  premesse,   o non riescono a decollare nonostante eccellenti  condizioni,  o ancora,  non si evolvono come dovrebbero evolversi,   cadendo in forme di pseudo amore,  dove la coppia è solo apparenza più che sostanza, o dove la coppia è compromesso, o convenienza, o ragion di stato, o abitudine,  o incapacità  all’esercizio della verità.  O  infine  resistono e si rinsaldano   tenacemente  nonostante  prove innumerevoli  e di lungo  percorso…

Ecco la prima condizione che il sentimento amoroso incontra e richiede:  il suo essere vero, il suo essere assoluto, il suo aspirare alla bellezza, il tendere al miglioramento continuo, il suo volersi proteggere da ogni possibile contaminazione, il suo sapersi donare dentro il cerchio e fuori del cerchio relazionale, il suo esigere chiarezza, il suo essere onesto e sincero, umile e modesto,  giocondo  e spensierato, geloso e fiducioso, gentile e coraggioso, intelligente  e  riflessivo.

Prima condizione dell’essere innamorato è dunque avere la possibilità, occasione, fortuna, contingenza che dir si voglia,  di incontrare   la persona giusta.

Ci si può chiedere con  ragione  come sia possibile riconoscere con certezza la persona che dovrebbe essere fatta per noi. Questa è la prima enorme difficoltà.  Se si sbaglia questo preliminare, che oltretutto  capita accidentalmente  perché non può essere in alcun modo pianificato,  si sbaglierà poi conseguentemente  tutti i passaggi successivi.

Non sapere riconoscere la persona giusta, o non saperla  scegliere, sono  errori  di una tale gravità ed imperdonabilità  che vengono pagati con  un prezzo  altissimo, ben peggiore di qualunque perdita finanziaria, anche la più disastrosa, come di qualunque  perdita d’immagine.

Forse questa sconfitta   è meno visibile,  è meno conclamata, è meno  soppesata dal sistema  sociale in cui ci troviamo immersi,  ma  vive ed impera  nel tessuto interiore  delle persone, dei singoli, degli individui,  che a loro volta costituiscono la nostra società.

E’  come se noi fossimo calati in un contesto urbano o non urbano  che tiene conto del nostro conto in banca, del nostro aspetto fisico,  del nostro lavoro e della nostra rete  relazionale, ma non tiene in minimo conto  la nostra  vita privata  forse proprio perché  privata e dunque appartenente  alla sfera  del non detto, del taciuto,  del riservato.

Chiariamo allora subito  in che senso il privato è privato e tale deve rimanere,  e in che senso il pubblico è pubblico  e deve essere  funzionante al privato e viceversa.

L’essere, l’io, la persona, il singolo, come infine l’individuo,  è fatto di questa mescolanza:  ha una suo sentire  interiore ed un suo essere calato nel mondo quotidiano che si interfacciano e non si scindono mai spontaneamente.

L’armonia, l’integrazione, l’equilibrio, la complementarità di queste due sfere che sono  concentriche  costituiscono  il presupposto della felicità.

Che vuol dire che non basta la coppia  a determinare la propria felicità,  perché la coppia stessa vive nel sociale,  vive nella pluralità  del tutto, necessita  del suo inserimento in tale sistema  condiviso;  ecco perché  il privato, che tale deve rimanere,  ha comunque un peso enorme per il benessere del pubblico.

Facciamo esempi concreti:  abbiamo avuto un litigio o uno scontro  con il proprio compagno,  e diventiamo intolleranti o nervosi anche  sul posto di lavoro  con i propri colleghi  o con chi avremo la sventura  di  incontrare.

Non che ci inventiamo occasioni di scontro,   semplicemente reagiamo alle normali   situazioni critiche  che  incontriamo  nel modo peggiore, per il verso meno favorevole, con un atteggiamento di chiusura e di   critica  distruttiva o impietosa.

In condizioni psichiche e personali   diverse  certamente reagiremmo in modo differente.

Così  come tutto il sistema pubblico   si appoggia  sulla consistenza  del sistema privato,  anche  lo sviluppo  del sapere  e lo sviluppo del sociale  si appoggiano sulla nostra personale capacità di costruire  relazioni personali.

Da questo risaputo principio  si può dedurre  che se il sistema pubblico e sociale non funziona è perché non funziona il nostro sistema privato, ossia   non funzionano i singoli che non sanno costruire le proprie vite in maniera funzionante, efficace e costruttivista.

Sorge spontanea la domanda:  ma c’è un sapere, un corso  di laurea,  che insegni alla vita?  Che insegni  la vita? Abbiamo  i corsi di psicologia, di sociologia, di filosofia, di teologia, ma non abbiamo  corsi  di  studio  della vita, della vita reale e quotidiana, che a sua volta è una mescolanza di tutti questi saperi.

Sarebbe interessante, perché no,  che qualche università  si interessasse  di questo  argomento; le domande oggetto di ricerca potrebbero essere molteplici,  per esempio:   perché  gli uomini  (nel senso delle persone) interrompono legami  matrimoniali ormai consolidati nel tempo? Perché gli uomini  amano avere relazioni  extraconiugali? Perché gli uomini  si sposano con estrema leggerezza  o evitano il matrimonio  come se fosse la peste? Perché  i figli sono lo specchio parziale  della coppia?  Perché la società  non difende e tutela adeguatamente  la famiglia  che è la sua perla più preziosa? Perché  tra genitori e figli è sempre esistito il cosiddetto conflitto  generazionale?  Perché  gli equilibri  di coppia  si raggiungono attraverso percorsi ad ostacoli  che fuoriescono e si sottraggono ad ogni genere di giudizio definitivo? 

Quanti argomenti, quanti aspetti,  quanti angoli  sconosciuti e misteriosi che potrebbero  essere fonte di saperi  estremamente utili e produttivi.

Vorrei   collegare questo mio argomentare ad uno studio che sto facendo  sul Dire la pratica  all’interno  di un eccellente studio di ricerca iniziato presso l’Università  di Verona   da giovani e meno giovani ricercatori  che   si vogliono occupare  dell’arte dell’insegnamento, arte antica quanto  sconosciuta nel senso di mai indagata  come prassi.

Si è appena concluso il convegno intitolato a questo tema  delle narrazioni didattiche   il 12 novembre scorso; erano presenti in sala presso lo storico edificio di Via Cantarane   le migliori eccellenze  universiterie del settore  internazionali e non, l’aula era gremita tanto che abbiamo dovuto cambiare la stanza  per potere dare a tutti i presenti  la possibilità di sedersi…(molti giovani studenti   che forse un giorno  saranno insegnanti  migliori di come lo siamo  stati noi nel passato anche grazie a questa preziosa risorsa aggiuntiva che la ricerca ha saputo mettere in campo nonostante la crisi  e nonostante le cattive politiche finanziarie…)

I  corsi di laurea  hanno da che mondo e mondo una impostazione teoretica/astratta.  Il saper fare, l’arte del creare, dell’improvvisare, dell’interagire nell’attimo e sull’attimo attraverso  le ordinarie  occasioni  di vita,  sono sempre state oggetto  di silenzio e di disattenzione, per non dire di sminuimento.

L’insegnante  fino a poco tempo fa  è sempre   stato colui che possiede il sapere delle parole intese nella loro  concettualizzazione , che possiede il sapere  dei contenuti  oggettivi;  dopo alcuni anni  in cui si è dato spazio   a valenti ricercatori e ricercatrici  che hanno cominciato ad occuparsi del come, del verso chi e  del perché   si fa didattica  (e non più   del quando    o   del dove   o del     su che cosa…)  si è scoperto  che  anche e soprattutto il mestiere  di insegnante  ha bisogno   della sua  prassi, cioè  della sua narrazione  delle pratiche didattiche.

Questi esperimenti d’aula  anzichè di laboratorio  vanno scritti, vanno osservati, vanno conservati, vanno documentati, esattamente come si farebbe con  un problema di carattere prettamente scientifico. E naturalmente  indagati con metodo scientifico,  con rigore, con fedeltà,  con attenzione  verso l’altro,  visto che qui si ha a che fare anche nella fase  iniziale e non solo in quella finale  con esseri umani,  con soggetti viventi,  con vite  che pulsano  e  chiedono  di  continuare  a pulsare  migliorando la qualità  della loro vita.

I  medici hanno il racconto dei loro casi clinici, gli avvocati hanno il racconto dei loro casi giudiziari, l’architetto ha il racconto  delle sue costruzioni  architettoniche, tutti accedono normalmente  agli archivi di loro competenza…solo  per  gli insegnanti  si è sempre dato per assodato  che avessero  già  acquisito in sé  l’arte del saper insegnare,  magari solo per avere fatto qualche settimana  di stage  sul campo,  cosa assolutamente non vera  e non certa, non precostituita  e predata.

Questo volume, Dire la pratica,  edito da Bruno Mondadori,  è l’excursus  di un team  che ha saputo incontrarsi (qui non c’è la coppia ma c’è il gruppo),  che ha saputo incontrare (qui non c’è  la società genericamente intesa ma  un tassello  della società stessa,  quella che riguarda nello specifico   il mondo della formazione)  , che ha saputo  porsi  delle domande  utili e preziose   a cui  finalizzare la propria ricerca (come si insegna? Esiste un metodo valido sempre e comunque? Cosa varia   e cosa non varia? Quanto conta la soggettività del docente?…),  che ha  voluto (sempre per riprendere  il legame stretto  tra  sapere, volere e potere) essere un’occasione di aiuto e di sostegno ai docenti  che ogni giorno  si trovano a combattere sul campo come se andassero in trincea,  più preoccupati  loro malgrado e per loro mortificazione,   di portare a casa la pelle che di portare a casa   conquiste.

Se poi si pensa  che  queste conquiste non sono altro che il benessere psico-fisico, spirituale ed intellettivo i nostri figli, dei figli  che nasceranno dai nostri , e così discorrendo,  si può ben comprendere l’urgenza, la gravità, la sostanzialità,  la vitalità ed il vitalismo  di questa riflessione.

Mi  riservo  di riprendere questo tema ambivalente  e strettamente  legato a mio avviso,  tra l’essere una persona felice e l’essere un buon insegnante,  quando avrò  acquisito  maggiori elementi  oggettivi e soggettivi  per  potere tornare  sul tema.

Anch’io sono una neofita, anch’io sono una che è arrivata come molti altri per ultimo,  per la mia gigantesca inesperienza forse non avrei nemmeno diritto di parola,  ma è pur vero che se non ho una lunga  esperienza come insegnante,  ho però una lunga esperienza  di vita vissuta sempre all’interno del sistema scuola e sempre all’interno  del sistema   società. Ovviamente non solo di  vita vissuta, ma anche di   vita metariflessa,  condivisa, discussa, osservata…

Nel frattempo  già in queste poche parole sono emersi, a mio modesto parere, spunti di riflessione  con cui lascio il  lettore  a  certe  proprie valutazioni.

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