Come ha giustamente messo in evidenza nei giorni scorsi Luciana Castellina, bisogna tra noi essere onesti. La storia del Gheddafi anti-colonialista e anti-imperialista non si cancella e non si riscrive sulla base della cronaca degli ultimi giorni. La fine del regime di re Hidriss e del sistema coloniale e la sua sostituzione con un modello progressivo di partecipazione delle masse è un dato storico difficilmente contestabile.
Quella spinta si è però, e non da ieri, ampiamente esaurita. Gheddafi ha interrotto il processo di socializzazione delle risorse già nel 2003, introducendo elementi di forte liberalizzazione, innanzitutto in campo energetico. A questo si aggiunge la politica estera del regime, costruita nell’ultimo decennio su relazioni spregiudicate con Usa e Unione Europea (nel campo energetico e in quello della politica migratoria) e di retorica vuota e inconcludente sulla questione palestinese. Infine, a ciò si aggiunge una condizione di svilimento della democrazia e dei diritti individuali tragicamente coerente con il perdurare pluridecennale del regime personale del raìs e ben esemplificato dai massacri indiscriminati di queste ore. La nostra avversione al regime libico quindi è fondata e fuori discussione.
Dentro questo quadro ci deve stare un giudizio ponderato sulle rivolte. Molti fattori indicano che non siamo in presenza di una sollevazione popolare omogenea. Le differenze con quanto è accaduto in Tunisia e in Egitto sono molte (in primis la condizione economica-sociale di partenza e il coinvolgimento militare diretto di settori dell’esercito e del potere libico contro altri). Tuttavia, è comune a tutte queste esperienze (per non dire dell’Algeria e dello Yemen) – e neppure questo elemento va sottovalutato – la messa in discussione di una struttura di potere sclerotizzata, corrotta e anacronistica.
Ma una discussione seria e, soprattutto, non astratta non può fermarsi qui. L’intervento di Tommaso Di Francesco sul manifesto da questo punto di vista è impeccabile. Le parole di Fidel Castro, pronunciate tra l’altro in splendida solitudine diversi giorni fa, rischiano di rivelarsi profetiche.
Gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea stanno procedendo a tappe forzate verso un nuovo intervento militare. I primi aerei militari tedeschi sono già in Libia mentre i caccia F-16 e gli Eurofighter italiani sono stati messi in allerta nelle basi di Trapani-Birgi e Gioia del Colle. Contestualmente è partita – come già per gli interventi in Iraq, Serbia e Afghanistan – la campagna massmediatica di disinformazione, menzogna e ricostruzione ideologica della realtà, dalle fosse comuni al numero gonfiato delle vittime.
La verità è che il rullo dei tamburi di guerra sta coprendo la voce della ragione e della lucidità, e cioè la voce di chi mette in evidenza gli interessi economici e geopolitici (dal petrolio al metano al comando strategico Africom) di quegli stessi soggetti che stanno oggi soffiando sulle rivolte e sulla guerra civile appunto per facilitare un intervento militare internazionale.
È un film già visto e proprio per questo la sinistra non deve commettere errori già compiuti in passato. Condannare il regime di Gheddafi e denunciare la repressione e la smisurata violenza non può in alcun modo farci tentennare rispetto alla denuncia di questi propositi di guerra.
Per questo motivo qualunque intervento militare degli Stati Uniti o dell’Unione Europea, a maggior ragione nella versione di una missione guidata dal nostro Paese (e diretta da quel governo Berlusconi fino a ieri strettissimo alleato del regime), è esattamente quello che dobbiamo contrastare con tutta la forza che abbiamo.
Su queste basi dobbiamo ricostruire i fili spezzati del movimento italiano ed internazionale contro la guerra. La nostra struttura giovanile comunista è a disposizione del movimento e del popolo della pace e mette in campo, da subito, una campagna di massa per contestare i tristi venti di guerra.
Simone Oggionni - Coordinatore nazionale dei Giovani Comunisti