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Fernanda Quarta: la poetessa dei gerani

Creato il 09 febbraio 2012 da Cultura Salentina

Fernanda Quarta: la poetessa dei geraniNon è vero che non ci sia più possibilità di fare poesia, non è vero che la poesia oggi sia solo deiezione, come sosteneva l’ultimo Montale.

La poesia ha in sé ancora capacità di rigenerarsi, rinnovarsi, rivalutarsi. A esempio è divenuta una delle espressioni più consuete del dolore e della consolazione, dopo i fatti dell’11 settembre. Liriche di poeti celebri furono riportate vicino alle fotografie dei dispersi, sui marciapiedi, nelle piazze, negli angoli delle strade, e in quella circostanza, come in altre occasioni di grandi catastrofi dell’umanità, si è toccato con mano il potere consolatorio della poesia, che per alcune creature è ancora isola felice, rifugio, oasi.

Tale è per Fernanda Quarta, poetessa di Racale, che, con Petali di gerani, edizioni CinqueEmme, 2011, gioca, sul filo della sua immaginazione creativa, a fare l’equilibrista senza rete, ripercorrendo itinerari magici, giochi di memoria e di colori fantasmagorici.. et voilà:

mi ritrovo
dentro una fiaba,
complice la penombra,
danzano folletti
intrecciando siepi di pace…
Chiamo me stessa
a sostare, ad ascoltare
violini di poesia, fruscio di silenzi
che spazzano le mie ansie…
raccolgo impronte di ore liete
e invento un mondo mio

Ma c’è pure, inevitabile, il ritorno alla dolorosa realtà con la

risata di démoni in festa,
balletti di folli
intenti a ideare nuove distruzioni…
il pianto dei miseri
(che) si spande sui nostri rituali
quotidiani
annebbia il nostro equilibrio…

E questo perché l’arte in genere, e la poesia in particolare, non è senza tempo, non è portatrice di un’istanza sovratemporale, come potrebbe apparire leggendo certi capolavori che non hanno tempo. La poesia non è “Messico e nuvole”, al contrario è sempre agganciata al reale e il ruolo del poeta è come quello di un sismografo che registra (con un suo linguaggio fitto di metafore) le cose che accadono in un momento preciso della storia, un fatto temporale con strumenti impalpabili astratti e adusati (sempre quelli, dalle grotte di Lascaux a quelle di Porto Badisco) quali pensieri, sensazioni, emozioni, sentimenti, nascita amore e morte; è un divenire, “farsi”, testimoni del proprio passaggio rapido nel mondo, un cercare di afferrare un volo, un grido, il senso della nostra vita, il mistero e il dio invisibile che c’è dietro; è un “ farsi” e dis-farsi costantemente, in tempo reale, ma allo stesso tempo “ eterno”.

Facciamo un esempio. Pensiamo a certe opere d’arte che nascono quasi esclusivamente dalla necessità estrema di voler testimoniare, di raccontare, gridare quasi fatti orribili e disumani, verità inimmaginabili, accadimenti inverosimili, di cui si è stati vivi testimoni, come ad esempio la deportazione nei lager nazisti (dalla “shoa” sono nati capolavori come “ Se questo è un uomo” di Primo Levi). E’ spesso da questo “bisogno” di raccontare e raccontarsi che nasce l’esigenza dello scrivere. Uno può scrivere più o meno bene, avere un suo stile più o meno efficace, più o meno affascinante, più o meno musicale, lieve, ammiccante, distaccato, ironico, ecc. ma se è poeta davvero non potrà mai sfuggire al proprio intimo senso, alla confessione della sua vicenda, storia individuale che diventa paradigma, storia universale, della propria coscienza e della coscienza di tutta l’umanità, della propria responsabilità e della responsabilità del mondo. In questa ottica non potrà mai venir meno quel sentimento della solidarietà e della fratellanza, della bontà iniziale, dell’innocenza da cui nacque il mondo e l’uomo nel loro insondabile mistero.

Ed è in questa direzione che volge gran parte della poesia di Fernanda Quarta, che è poesia intimistica, delle piccole cose banali che accadono ogni giorno

Oh quanto sapore di bene
nella consueta quotidianità!

ma allo stesso tempo diventa poesia di impegno “civile” profondamente cristiana. Anche lei (nella sua dimensione e nel suo ruolo), si occupa dei poveri, dei diseredati, dei disgraziati, de “Gli ultimi”, i “drop out”, come li chiamano gli inglesi, come faceva il grande maestro di tutti noi, don Tonino Bello, profeta salentino della pace e della solidarietà umana, ma anche voce dell’avvenire, che incita, che sprona i fratelli a scuotersi dall’indifferenza, dalle incrostazioni, dalle rassegnazioni, dal piangersi addosso, e a mettersi in marcia per costruirsi da soli un futuro dignitoso, fatto di sudore e di giustizia sociale e umana. Anche per Fernanda non è

inutile
il pianto
che dissolve la cipria
dell’ipocrisia
per fare chiara l’agenda
delle ipotesi.

Non sono vane
le lacrime
che lavano
presupposti sconnessi per costruire itinerari che appagano
nella lotta.

Non è vano il pianto
che brucia gli errori
e coltiva le ceneri
per germogli
sinceri….

Non è sprecato
il pianto per il dolore altrui…

Lei non rimane indifferente di fronte a certe cifre, ai cinquantamila bambini che ogni giorno muoiono di fame e di malattia. Si interroga e pensa che ci deve essere qualcosa di radicalmente sbagliato in noi, nella nostra civiltà occidentale, se tre quarti degli abitanti della terra vivono in una povertà spaventosa, se un miliardo di uomini sparsi per le plaghe del mondo ancora non conoscono la luce elettrica. Certo, la poesia non spiega, né risolve niente, né allevia il dolore e la sofferenza dell’umanità, ma ci aiuta a capire queste violazioni umane, queste storture, queste ingiustizie spaventose che fanno parte della storia oscura dell’uomo.

E Fernanda dice, con i suoi versi, “J care”, la cosa mi riguarda, m’interessa, voglio occuparmi di

Chi giace ai confini
della condizione umana

(e)

guarda il mondo convinto
di esserne escluso

Noi che
vagheggiamo il “di più
in un pianeta tutto nostro
dove contano i titoli
per accaparrarsi un podio

E le viene il sospetto che

Gli ultimi
(che)
non conoscono affetti,
né muri di casa, né letti,
neanche lacrime

….quegli ultimi di cui oggi non vogliamo occuparci, perché

sempre inclini alla protesta…

a lamentarci perché
inadeguato il nostro benessere
…li incontreremo raggianti
in un mondo lontano
e forse
ci tenderanno la mano

Ma in questa sorta di ipotesi da finale evangelico, da discorso della montagna: (beati gli ultimi…) in cui rincontreremo gli ultimi, che saranno diventati i primi, (ed è per questo che forse ci perdoneranno), Fernanda Quarta non vuole fare la farisea e mettersi la coscienza in pace, no; anzi non si esime dalle sue colpe e dai suoi rimorsi, consapevole com’è che

la realtà non è un video
che possiamo spegnere
per vivere in pace
la nostra normalità
compensata…

Sa che

“il patire del mondo/è un sottofondo
di note funeree
che pervade i nostri agi,
i nostri piaceri
quale eco di respiri stentati
di esseri umani
che non sono umani.”

(pag. 56)

Sa che navighiamo tutti su una barca che va alla deriva

“sommersi
da dubbi, vinti da angosce…
siamo su quella barca
con tanta paura”

…perché…

tutti abbiamo smarrito
la via illuminata,
camminiamo nel buio
dell’incertezza e dell’errore.

Non sappiamo capire
non sappiamo soffrire
non sappiamo più amare…

E l’unica ancora di salvezza è Cristo, come duemila anni fa sul lago di Tiberiade, quando gli apostoli che pure erano con lui ebbero paura. (vds. “Signore, salvaci!”).

Quello che ci salva, anche

quando il nostro volto
avrà troppi segni
delle beffe del tempo

o

e albe insonni in attesa
di gioia,
restano foglie accartocciate
che cadono con rituale silenzio
sulle brume

e ore vacillano sui bianchi fili
dei ricordi…

quello che ci salva sono

quelle poche parole
che sai dire sfiorando una mano…

e la certezza che comunque vada nella nostra vicenda personale

c’è sempre
un motivo per amare
.


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