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Fernando Colazzo, un italiano d’Austria posted by Alessandro Tiberini

Da Parolesemplici

Fernando Colazzo, un italiano d’Austria posted by Alessandro TiberiniLa storia di quest’uomo inizia nella penisola salentina, il lungo tacco d’Italia che dall’Adriatico si lancia sull’Ionio e sul Mediterraneo. Lì sul canale d’Otranto, a due passi di mare dall’albanese porto di Valona. Dove era facile per i Greci di prima di Cristo venire a cercare grano e creare colonie. O in cui c’era bisogno di creare torrette per difendersi dai Turchi. Mentre i Veneziani avrebbero percorso quelle coste. Tutti lasciando impronte, rimaste sul terreno e sulle parlate. E, chissà, insegnando architetture complesse dominate da linee curve, che indicano ansia di infinito e irrequietezza, come nelle affascinanti strutture barocche di Lecce, la capitale. Peraltro, anche Galatone, il paese di Fernando, ha la cattedrale e le altre chiese ricchissime di formelle di cotto, di ori e di statue.

Il nostro Fernando, dunque, nacque a Galatone, paesetto tra Galatina e Gallipoli, sull’altro versante del tacco, a poca distanza tuttavia dalla capitale. Nell’Apulia africana, dunque, bruciata dal sole e col blu del mare.

La Galatone storica sta tutta rinchiusa in viuzze e piazzole fra mura e torri. Ma già ai tempi di Fernando si espandeva con costruzioni non proprio belle nella periferia del paese, fuori le mura. Su, fin dove c’era il convento dei Cappuccini, poi trasformato in ospizio per vecchi.

Nel secondo dopoguerra anche Galatone, come l’Italia, pure quella del nord, non conosceva uno sviluppo industriale, che è quello che non fa morir di fame la gente. C’erano bensì attività artigianali. Ma la maggior parte degli abitanti o non faceva niente o faceva il bandista o trovava occupazione negli uffici comunali o in quelli, rari, statali. O andava a fare il militare. Le donne erano donne di casa e, nel tempo libero, si facevano il corredo, ricamavano o facevano il pizzo, facevano le sarte.

Fernando non faceva la fame. Il padre aveva un’attività. Faceva calce. Cuoceva nella fornace la roccia organica. Triturava, metteva nella buca la polvere bianca che, con l’acqua, bolliva. Guai a caderci dentro.

Era poco più che adolescente che anche Fernando lavorava col padre. Infarinato come un fornaio. Con le mani bruciate. Ma mal sopportava questo lavoro. Perciò fece l’apprendistato nel calzaturiero in una ditta di Barletta. Quindi andò in Svizzera. Qui guardavano ogni lavoratore straniero, ma anche il semplice turista italico con occhio accusatorio e con una lieve smorfia di disgusto. Attenti che, magari, non gettassero qualche carta per terra. E scrivevano scritte educative dappertutto, come se tutti dovessero apprendere l’educazione da loro. Certo, bisogna anche considerare che era riprovevole il comportamento di immigrati meridionali sicuramente, però, irrequieti e ribelli perché sradicati dalla loro terra. No, non era proprio aria per il Nostro.

Per la verità, ci sarà un motivo se Boccaccio immaginò la terra di Bengodi, dove c’è la possibilità di mangiare bere e divertirsi a scrocco. Dove la gente si diletta a cucinare una smisurata quantità di maccheroni e ravioli cotti nel brodo di cappone e bagnati da una squisitissima vernaccia che scorre in un ruscelletto lì a fianco. O se Teofilo Folengo nel suo Baldus descrive il paese di Cuccagna, in cui le montagne son fatte di formaggio tenero duro e mezzano. E su un mare di sugo ci sono reti di salsicce intrecciate di trippe di vitello. E’ evidente, c’era una gran fame ai tempi medioevali in cui Boccaccio e Folengo avevano di queste fantasie.

Anche Angelo Beolco detto Ruzzante dice di un suo personaggio che in vita si saziò una volta soltanto, quando mangiò se stesso.

Anche la Galatone dei tempi del giovane Fernando aveva spesso fame.

E se si pensa alla terra italica bisogna pure considerare le lacrime e il sangue di cui quella terra è imbevuta. Lavorata nei secoli palmo a palmo, anche dove essa non era fatta per dare frutti. Sì, l’Italia non è l’America dalle terre sconfinate e desertiche, e senza storia.

La fame deve essere durata a lungo se al sud e al nord d’Italia spesso, all’occasione, si mangia a crepapelle.

Ma non era da questa fame che il buon Fernando era posseduto. Il suo era un sogno di molti, specialmente nel meridione. Andare al nord o all’estero e lì costruire il proprio futuro. E, magari, tornare ricchi al proprio paese.

E approdò in Austria, in Carinzia, appena al di là dei confini con l’Italia. In mezzo ai monti, ai colli, ai boschi ai laghi della Cacania felice. Che aveva dimenticato la guerra e cominciava la ricostruzione e l’impostazione di nuove attività. Col fervore che prende dopo le guerre, anche in quella terra dolce che viveva ancora nel mito di una nazione asburgica, imperiale, ricca, colta e gioiosa, piena di feste e di giostre.

Questo era diventata la piccola Austria dopo la prima guerra mondiale, quella del quindici-diciotto. Aveva perso l’impero e la ricchezza, ma gli Austriaci fingevano di vivere ancora come ai bei tempi. Si offrivano ai piaceri dei sensi. Leggevano, come avevano sempre letto, perché i funzionari avevano dovuto tenere in piedi luoghi svariati, con costumi diversi, e dovevano conoscere popoli diversi. I figli di quei funzionari divennero medici, avvocati, professori, tutti, però, lettori e colti, come i loro padri funzionari. E chissà, proprio la tradizione di convivere con popoli diversi aveva fatto accogliere Fernando con maggior prontezza che non gli svizzeri.

Non erano militari, quegli asburgici. Lo divennero, in parte, col nazismo.

Quel nazismo combattuto, tuttavia, all’interno, fra le due guerre, da correnti marxiane e operaie.

Fernando, anche se non consapevolmente, bevve sia il liberalismo borghese, sia la simpatia per i suoi operai o per i camerieri ovvero per i cuochi. E diventò presto un imprenditore all’italiana, senza rigidezze teutoniche.

Certo, ha sposato una austriaca. E in Fernando c’è il tocco neanche tanto segreto della moglie. Si sa, dietro il successo di un uomo c’è una donna.

Lieselotte non ha avuto di sicuro il ruolo di anodina presenza di accompagno. Essa è diventata compagna preziosa. Una specie di mamma severa cui ci si appoggia e che sa anche perdonare le birbonate. Di cui Fernando si fida. E a lei obbedisce, perché così la vita è più semplice, sicura, protetta. Saranno stati gli anni passati insieme, fatto sta che questa corpulenta coppia, lui del tacco d’Italia e lei asburgica, ha acquistato strane somiglianze e simili modi di fare. Si vede che l’amore è l’armonia dei contrari, come ha detto qualcuno. Fernando è orgoglioso delle idee che ha avuto e per la verità tende a negare l’apporto della moglie, ma l’apporto c’è stato, eccome.

Il nostro uomo ha prima messo su una fabbrica di piastrelle. Certo guidato dalle sue esperienze galatonesi nel campo edilizio. Ne produceva di tutti i tipi. Piastrelle maiolicate, finemente disegnate e dipinte, ceramiche. In ciò adeguandosi al gusto raffinato di certi interni e esterni di fabbriche asburgiche.

Ma non faceva solo piastrelle, lavorava marmi, perfino tombali, sanitari. Anche nella fabbrica che impiantò nel paese d’origine. I marmi gli venivano da Carrara, i graniti dalla Sardegna, la pietra da Trani.

E serviva tutta l’Austria. Impiantò una fabbrica in Stiria.

Questo fu soltanto l’inizio. Si affermava il turismo, di qua e di là del confine. Fernando e la sua compagna diversificarono le attività. Crearono villaggi turistici camping alberghi, anche in qualche castello asburgico sul lago di Klopein, in cui, pare, abbia soggiornato la dolce e ribelle Sissi, per curarsi in quei luoghi ameni. Lì hanno fatto appartamenti negozi una discoteca. Impiantarono un mega store nelle vicinanze di Vienna.

Fernando e la moglie si son messi a fare persino orologi e preziosi e abbigliamento.

Certo, quest’uomo ormai abbastanza avanti con gli anni, è stato sempre colto. Ha posseduto quella che s’usa chiamare furbizia, ma che è in realtà cultura, quella che non s’impara a scuola e che l’italico possiede nel proprio patrimonio quasi genetico. Si tratta delle sue esperienze storiche, di uomo che è stato schiavo di padroni feudali, e che ha imparato l’arte di far fare al padrone quel che vuole lui, lo schiavo. O di chi ha subito dominazioni straniere di tutti i tipi, che ha saputo, appunto, mettere a profitto, per sopravvivere.

E è rimasto religioso, il Nostro, come lo sono quelli della sua terra. Perché storicamente gli uomini si son sempre affidati a Dio, per sopportare miserie e malattie, o per chiedere misericordia davanti a tragedie naturali che annullavano il poco raccolto da cui dipendeva la sopravvivenza.

La religione è una consolazione, ma dice anche, dalla Bibbia in poi, che il credente vive nella miseria, e desidera vincerla.

Fernando ha ricevuto tanti riconoscimenti per le sue iniziative imprenditoriali. Gli hanno perfino dedicato una piazza, lì in Austria. Succede a pochi, prima di morire. Per lui sono stati stampati due francobolli.

Eppure ha sempre avuto il senso della fragilità. Ha sempre saputo che ciò che ha un inizio ha anche una fine. E ha costruito una chiesa. Dedicata allo stesso protettore della cattedrale galatonese.

In tutta la sua vita non ha voluto essere né padrone né sottomesso. Ha amato tutti, anche i suoi dipendenti. Perciò è stato libero.

Fernando ha sempre avuto nel cuore Galatone, il paese dove è nato e dove ha passato infanzia e adolescenza. Lì ci sono le sue radici. Che non sono fatte soltanto dal luogo, ma, soprattutto, dai suoi genitori che gli hanno dato il senso di appartenenza a una famiglia, a una casa e a una terra, a una cultura, a un ambiente fatto di orizzonti, di luci, di odori di profumi di emozioni di sentimenti di ideali condivisi. Perciò ha volato alto, perché ha avuto radici solide e profonde. Per questo ha sopportato anche piogge e tempeste. E può sopportare anche se qualche malattia lo ferisce.

Da piccolo, appunto, ha avuto la presenza costante dei genitori, ma anche dei nonni. Che condividono il lessico familiare e le atmosfere emotive. Presenze che non sono state vizianti, però. Ha avuto anche dei no, il Nostro, motivati con affettuosa fermezza. E ciò gli ha irrobustito il carattere. E gli ha consentito di risolvere piccoli e grandi problemi e di muoversi nella complessità dell’esistenza.

Tutto ciò gli ha consentito anche di amare i luoghi austriaci dove praticamente si è svolta tutta la sua vita. L’Austria con la varietà e la non noiosità di monti e colline verdi, ben curati, coi castagni e i noci e i meli. Con le mucche al pascolo. Con le case dal tetto spiovente e le finestre piene di gerani e di campanule.

Ma ha amato anche le città con le costruzioni neoclassiche e gli ornamenti dorati. Con gli stucchi bianchi. Come in Alto Adige. Con le bande composte da suonatori con le brache di pelle lucida i cui strumenti a fiato emettono suoni metallici. Con le orchestrine e i valzer degli Strauss. E con la ruota gigante del Prater di Vienna.

Atmosfere presenti anche a Kuhnsdorf la città dove Fernando risiede.

Forse c’è un punto che Fernando ha colpito e che ha determinato il suo successo. Lo ha colpito forse inconsapevole. Ha offerto, all’inizio specialmente, dei materiali raffinati per fare ville e edifici. Ciò – come sappiamo – interessava molto a una gente aristocratica, che portava in sé la grandezza antica e che, attraverso quegli edifici, credeva ancora alla sua aristocraticità.

Fernando non è stato filosofo professionale, ma ha sempre creduto di essere una persona e è stato sempre contrario a ogni utopismo e a ogni idea di perfezione. Per lui, infatti, l’utopia non anima l’industria, l’agricoltura, le arti, i commerci, ma toglie tutti gli stimoli, togliendo agli uomini la privata volontà e lo spontaneo lavoro. E per lui, cattolico, come cattolica è la moglie asburgica, la proprietà fa tutt’uno con la persona.

Probabilmente in un solo momento Fernando ha disobbedito al padre, quando ha deciso di abbandonare Galatone e di non fare più il di lui lavoro. Ma in quel momento egli è diventato padrone di se stesso. Ha imparato a fidarsi delle proprie forze e ha creato.

E è un fatto che si è calato benissimo nella nuova realtà. Tuttavia è sempre stato sicuro che sempre, quando la nostalgia lo chiamava, sarebbe tornato al suo paese. Dai suoi amici. Con cui mangiare, a Natale, la pignata di carne di cavallo e patate. Questa carne che deve bollire per cinque-sei ore nel grande recipiente di terracotta coi pomidoro e le cipolle vicino ai ceppi accesi, e col peperoncino piccante. E il vino. Oppure le polpette di ciuccio fae (fave) e cicore (cicoria). Ovvero i dolci preparati dalle donne di casa. I purciddhuzzi col succo di tre arance la tazza di liquore secco il limone il miele la farina il lievito di birra lo zucchero e un cucchiaino di sale. O i cartddhiate.

Fernando è sempre stato ospitale. Anche questo dipende dalle radici che affondano in tempi lontani. Quando qualche casa esisteva lontana da un’altra. E il viandante veniva rifocillato in quella casa. Con la tacita convinzione che anche lui, un giorno, avrebbe contraccambiato. Questo è il senso dell’ospitalità rimasta nell’italico dei luoghi poveri. Solo che oggi, in cui non ci sono più quelle condizioni, è rimasto soltanto il rito. Bene, nel nostro Colazzo non è soltanto un rito privo di senso, è proprio un costume radicato.

Ha fatto sempre del bene. Ha fatto operare agli occhi a sue spese un bambino.

Lo spiacevole è ora, che degli amici e dei parenti son morti. In cui egli si accorge che cala il numero di coloro con cui si fanno delle belle mangiate e con cui si parla dei tempi passati e di episodi, anche insignificanti, vissuti insieme.

Ma Fernando ha sempre avuto il senso della famiglia, e sa che tutto ciò che ha fatto rimane, nei figli Marco Roberto Sandro Carlo e nipoti. Anche se, a questo proposito, a volte gli viene qualche dubbio che a quei figli venga a mancare il suo grande desiderio di affermazione e la sua iniziativa. Cosa che avviene a molti figli di imprenditori che si son fatti dal niente. Per fortuna che i figli sono maghi dell’informatica e ciò è una garanzia per il futuro.

E’ certo, infatti, che nei momenti di crisi sono gli imprenditori come Colazzo che rimettono a posto l’economia. Oggi, poi, che molti giovani sotto i trent’anni, anche nel meridione, si sono impegnati in una attività imprenditoriale.

E il Salento ha preso la sua marginalità e l’ha fatta diventare un valore, non una moneta. Per cui il turismo funziona a pieno regime e con poca spesa, sicché è visibile la grande ripresa economica. Gallipoli sembra una Rimini dei tempi ruggenti. Centri storici puliti e chiusi al traffico. Manifestazioni, sagre, fiere, processioni e luminarie. E libertà. Terre estese di olivi e vigne. Vuoi vedere che quel luogo è ritornato terra di Dioniso, una Grecia del VI secolo avanti Cristo.


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