di Marco Grassano
“Fernando Pessoa-Ricardo Reis secondo José Saramago”
Fernando Pessoa (da Wikipedia)
L’anno della morte di Ricardo Reis è il primo libro di José Saramago che ho comprato. In portoghese, lingua che allora non conoscevo. Lo comprai – a Torino – perché quel giorno dovevo incontrare l’autore, e volevo un suo autografo: che poi mi fece. Per poterlo comprendere, dovetti procurarmi anche la traduzione, uscita da Feltrinelli (peraltro costellata di non poche pecche, per non dire svarioni, come altrove ho già osservato). L’inizio è di quelli che prendono: un incipit pieno di consonanze letterarie (in particolare con Luis de Camões, considerato il “padre” della poesia di lingua portoghese, e con Fernando Pessoa), ma allo stesso tempo del tutto originale: “Qui il mare finisce e la terra comincia. Piove sulla città pallida, le acque del fiume scorrono limacciose di fango, la piena raggiunge gli argini. Una nave scura risale il flusso tetro…”.
Non ero neppure mai stato a Lisbona, e sarebbe dovuto trascorrere ancora qualche anno prima che potessi sapere cos’erano veramente quegli “argini” (lezírias, in lingua originale): dei tratti di lungofiume pedonale da cui, durante l’alta marea, si può toccare l’acqua dell’estuario del Tago.
Il libro racconta di Ricardo Reis, uno degli eteronimi di Pessoa, medico e autore di Odi dal sapore oraziano, che ritorna in Portogallo dopo alcuni lustri di permanenza in Brasile. Siamo alla fine del novembre del 1935, proprio nei giorni in cui moriva la persona (pessoa) reale del suo “fingitore” (oggi, 30 novembre, ricorre infatti l’anniversario della morte di Pessoa, ndr), il cui necrologio Ricardo legge sul giornale. Il cielo è uno stillicidio di pioviggine, come avviene solitamente, in inverno, nei climi atlantici, e a Lisbona in particolare. Il protagonista scende dalla nave, esce dal porto, prende un taxi e si fa portare fino al Residencial Bragança, un albergo dal lusso moderato (ora è chiuso, ma agli inizi degli anni Novanta lo vidi ancora pienamente funzionante) posto all’inizio di Rua do Alecrim, la “Via del Rosmarino”: arteria che dal fiume sale fino al Bairro Alto, il quartiere dei caffè, delle chiese, dei piccoli ristoranti e bar dove si canta il fado. Subito dopo essersi installato, Ricardo comincia a riscoprire la città, percorrendola a piedi o con i celebri tram gialli (poi ripresi anche in alcuni film di Wim Wenders), a ritrovare gli angoli, i viali con gli alberi che nel frattempo sono cresciuti, la vita quotidiana dei piccoli abitanti, “comparse della vita”.
Legge, soprattutto un romanzo inglese, The God of the Labyrinth, di Herbert Quain: in realtà titolo fittizio, inventato da Jorge Luis Borges in un proprio racconto. Continua a scrivere le sue poesie, pervase di “epicureismo triste”: ne troviamo vari lacerti inseriti nella compatta prosa saramaghiana. Conosce una delle cameriere dell’albergo, Lídia, nome femminile citato quale destinatario di molte delle Odi; con lei stabilisce una relazione. Conosce anche Marcenda Sampaio, figlia di un notaio di Porto, periodicamente in visita a Lisbona, accompagnata dal padre, per curarsi una mano che le si è paralizzata dopo la morte della mamma. Ne nasce un’attrazione reciproca, impossibilitata alla realizzazione dalle “buone convenzioni” borghesi dell’epoca, che peraltro entrambi sembrano condividere o quantomeno rispettare, da “buoni borghesi” che sono. Il nome proprio Marcenda non esiste in portoghese, ed è pura invenzione di Saramago: che lo mutua da un verso delle Odi di Reis: “Marcescibile (marcenda) la rosa…”.
Viaggia in altre zone del Paese; a Fatima osserva, con lo sguardo razionalista del medico, la fede religiosa ridotta a sofferenza ostentata e a commercio. Assiste persino a un celebre comizio, organizzato dal regime salazariano. Si trova ad aver a che fare con gli sgherri della polizia politica “per la difesa dello stato” (la famigerata PIDE), che lo sospetta di essere un sovversivo in incognito e diffida delle sue frequentazioni con la cameriera Lídia, sorella di un marinaio coinvolto in un ammutinamento antifascista.
Si stabilisce in una casa affacciata sul fiume, vicino alla piazzetta con la statua del Gigante Adamastor (personaggio del poema I lusiadi, di Luís de Camões), e riprende a esercitare la professione, sostituendo un collega malato.
Partecipa ai festeggiamenti della notte di San Silvestro, con riti e abitudini – simili a certe usanze napoletane (ad esempio, buttare gli oggetti di casa vecchi, rotti e inutili fuori dalla finestra) – ancora ben presenti quando ci sono stato io.
Ma soprattutto riceve visite del fantasma (chiamiamolo così, in mancanza di definizioni migliori…) di Fernando Pessoa, cui dopo la morte è consentito di aggirarsi per un po’ di tempo nei luoghi nei quali aveva vissuto, prima di sparire del tutto. Lo incontra all’albergo e lo incontra nella sua nuova abitazione, commenta sobriamente con lui gli incontri femminili, il tempo meteorologico, quel che succede attorno a loro, nel bene e, per lo più, nel male.
Scade il tempo (cronologico) concesso a Fernando; arriva il momento della partenza definitiva; anche Ricardo se ne va, mettendosi in tasca il suo immaginario romanzo inglese “per lasciare il mondo con un enigma di meno”. Ma prima di sparire mette incinta Lídia: lasciando così al mondo, in compenso, un segno in più di se stesso: da aggiungere ai versi, che ancora oggi leggiamo.
Lisbona e il Tago (da Wikipedia)
A mio parere, però, il meglio dell’opera di Pessoa lo si ritrova nelle poesie di Messaggio (Mensagem), unica raccolta organica pubblicata in vita. Qui Fernando riesce a rifare Orazio – anziché, classicisticamente, imitarlo, come fa invece Ricardo Reis – nella magnifica commistione, praticamente intraducibile, tra riferimenti storico-mitologici, dati sensoriali, ritmo, suono, essenzialità dell’espressione e accordi di significato.
Da essa ho tradotto i versi coi quali voglio concludere questo breve testo. Non sono, nel mio povero rifacimento italiano, che il pallidissimo riflesso dell’originale, col quale invito a confrontarsi, ma risultano comunque assai più efficaci di qualunque mia osservazione o commento, se si vuole avere un’idea del livello artistico raggiunto dal loro autore. Buona lettura a tutti: sia delle poesie di Pessoa che dei romanzi di Saramago…
I. I CAMPI
Primo: Quello dei castelli
L’Europa giace, appoggiata sui gomiti: da Oriente a Occidente giace, guardando fisso, e le velano romantici capelli occhi greci, ricordando.
Il gomito sinistro è arretrato, il destro è disposto ad angolo. Il primo dice “Italia” dove è posato; il secondo dice “Inghilterra” dove, allontanato, sorregge la mano, sulla quale si appoggia il viso.
Guarda fisso, con sguardo sfingico e fatale, l’Occidente, futuro del passato. Il viso con cui guarda è il Portogallo.
Secondo: Quello delle quinconce
Gli dèi vendono quanto danno. Si compra la gloria con la disgrazia. Guai ai felici, perché sono solo ciò che passa!
Basti, a chi bastasse quel che gli basta, l’abbastanza di bastargli! La vita è breve, l’anima è vasta: avere è tardare.
Fu con disgrazia e con viltà che Dio definì il Cristo così lo oppose alla Natura e lo unse Figlio.
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II. I CASTELLI
Primo / Ulisse
Il mito è il nulla che è tutto. Lo stesso sole che apre i cieli è un mito brillante e muto – il corpo morto di Dio, vivo e nudo.
Costui, che qui sbarcò, fu perché non esisteva. Senza esistere ci bastò. Non essendo venuto, venne e ci creò.
Così la leggenda fluisce entrando nella realtà, e fecondandola trascorre. In basso, la vita, metà di nulla, muore.
Secondo / Viriato
Se l’anima che sente e fa conosce solo perché ricorda quel che ha dimenticato, siamo vissuti, razza, affinché ci fosse in noi memoria dell’istinto tuo.
Nazione perché ti reincarnasti, popolo perché risuscitò o tu o ciò di cui tu eri lo stelo – così il Portogallo si formò.
Il tuo essere è come quella fredda luce che precede l’aurora, ed è già lo stare per esserci il giorno nell’antemattino, confuso nulla.
Terzo / Il Conte Don Enrico
Ogni inizio è involontario. Dio è l’agente, l’eroe assiste a se stesso, vario e inconsapevole.
Sulla spada che ti sei trovato in mano cade il tuo sguardo. “Che farò io con questa spada?”
La alzasti, e si fece.
Quarto / Donna Teresa
Le nazioni tutte sono misteri. Ognuna è tutto un mondo a sé. O madre di re e nonna di imperi, Veglia per noi!
Il tuo augusto seno allattò con rude e naturale certezza colui che, imprevisto, Dio destinò. Prega per lui!
Assegni la tua preghiera una sorte diversa A chi destinò il tuo istinto! L’uomo che fu il tuo bambino è invecchiato.
Ma ogni vivo è un eterno infante Dove tu sei e non c’è il giorno. Nell’antico seno, vigile, nutrilo di nuovo!
Quinto / Don Afonso Henriques
Padre, fosti cavaliere. Oggi la veglia è nostra. Dacci il tuo esempio integro e la tua forza intatta!
Dacci, contro l’ora sbagliata in cui nuovi infedeli vinceranno, la benedizione come spada, la spada come benedizione!
Sesto / Don Dionigi
Nella notte scrive un suo Cantico di Amicizia il coltivatore di navi che ci saranno, e ode un silenzio mormorare con se stesso: è il brusio delle pinete che, come un frumento di Impero, dondolano senza che si possano vedere.
Ruscello, quel cantico, giovane e puro, cerca l’oceano ancora da trovare; e il discorso delle pinete, mareggiare oscuro, è il suono presente di quel mare futuro, è la voce della terra che sospira per il mare.
Settimo 1 / Don Giovanni I
L’uomo e l’ora sono una cosa sola quando Dio fa e la Storia è fatta. Il resto è carne, la cui polvere la terra tiene d’occhio.
Maestro, senza saperlo, del Tempio che il Portogallo fu fatto essere, tu che ottenesti la gloria e desti l’esempio di difenderlo,
il tuo nome, eletto nella sua fama, è, nell’ara interna della nostra anima, l’eterna fiamma che respinge l’ombra eterna.
Settimo 2 / Donna Filippa di Lancaster
Quale enigma c’era nel tuo seno che concepiva solo genii? Quale arcangelo venne a vegliare i tuoi sogni materni, un giorno?
Volgi a noi il tuo viso serio, principessa del Sacro Graal, umano ventre dell’Impero, madrina del Portogallo!
(continua…).
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