di Cristiano Abbadessa
Alla fine siamo arrivati dove immaginavo. Forse prima del previsto, e con una schiettezza che credo debba indurre tutti a qualche riflessione. Mi riferisco al Festival dell’Inedito, iniziativa che ha già suscitato molti commenti in rete, e al suo significato.
Non mi soffermerei troppo a lungo sui contenuti della proposta, che potete leggere e valutare nel sito indicato. E non mi stupisco del primo tenore dei commenti, tutti negativi, di scrittori o aspiranti tali, che bocciano il Festival bollandolo come sordida e neppure troppo astuta forma di editoria a pagamento. Che gli autori non vogliano pagare per pubblicare è legittimo e risaputo: pochi e malvolentieri pagano servizi editoriali che non sono finalizzati alla pubblicazione ma alla crescita professionale (come quelli che proponiamo noi stessi), pochissimi accettano di sottoporsi alla trafila classica dell’editoria a pagamento vera e propria (forse non così pochissimi, visto che gli editori a pagamento continuano a esistere; diciamo che probabilmente chi vi ricorre non si manifesta nei blog e nei dibattiti in rete).
Va però detto, per essere precisi, che la formula del Festival non assomiglia né alla fornitura di servizi editoriali (perché l’esca succulenta è proprio il traguardo della pubblicazione) né all’editoria a pagamento classica, che la pubblicazione la garantisce, seppure in cambio di un corrispettivo spesso anche esoso. Con il Festival siamo arrivati alla “terza via”, che è quella della grande riffa, dove tanti pagano e uno vince, e se paghi poco non vinci ma se paghi di più aumenti le tue possibilità di successo.
Questa mi sembra, nella sostanza, l’idea di chi ha lanciato l’iniziativa. Il Festival vero e proprio, con la sua esposizione fiorentina, mi sembra in tal senso un mero pretesto e l’aspetto persino un po’ cialtronesco dell’operazione, perché non credo davvero che una misteriosa e indefinita preview online, un banchetto e la possibilità di presentare (ma a chi?) un’opera ancora in cantiere servano a costruire contatti o percorsi. Il paradosso è che gli organizzatori puntano proprio sull’evento per fare cassa; perché, onestamente, il prezzo richiesto per la prima iscrizione in cambio della quale viene fornita una scheda di valutazione dell’opera completa è bassino (in effetti non ripagherebbe i costi di una lettura professionale), mentre i 400 euro che sborseranno i partecipanti al festival (più altri eurini se vogliono alcuni “servizi” aggiuntivi) in cambio di nulla o quasi sono davvero la “polpa” dell’incasso. Deposito Siae e offerte di stampa a prezzi scontati sono corollari che riportano, questi, sì verso l’editoria a pagamento o il semplice taglieggiamento.
Il cuore della proposta, come dicevo, sta dunque nella grande lotteria: tanti partecipanti, uno o due che arriveranno a pubblicare, sebbene non si sappia con chi. In questo senso, l’idea potrebbe anche avere successo: se gli organizzatori pensano di replicare la formula e se non sarà un totale flop in termine di adesioni (cioè, se arriveranno almeno un po’ di opere decenti e qualche autore capace), sarà loro interesse arrivare davvero alla pubblicazione, con grandi marchi, di un paio di partecipanti, lanciandoli anche in maniera adeguata e aggressiva sul mercato; e, considerando i nomi degli editori in ballo e le relative potenzialità promozionali e mediatiche, è pure possibile che venga fuori almeno un titolo capace di fare cassetta.
Credo sia questo l’elemento che potrebbe far decollare l’iniziativa, pubblicamente subissata di critiche o peggio. In realtà, anche quella della riffa non è un’idea nuova: ci sono piccoli editori, spesso di dubbia fama, che ogni tanto lanciano imprecisati concorsi promettendo la pubblicazione del vincitore. I costi sono più contenuti (magari neppure troppo: dai 50 ai 100 euro, ma senza il passaggio obbligato per un costoso e inutile spazio espositivo), e qualche decina di iscritti garantisce di poter pubblicare un titolo a costo zero o giù di lì. Naturalmente non a tutti riesce il buco nella ciambella: perché un editore sconosciuto ha scarso appeal e nulla garantisce, in termini di vendita, dopo la pubblicazione, quindi può capitare che raccatti poche adesioni; invece i grandi nomi coinvolti nel Festival dell’Inedito possono rappresentare una sorta di miraggio per tanti aspiranti.
Quello che però mi sembra davvero importante, al netto delle considerazioni personali che ciascuno può fare, è che partecipando al lancio di questo Festival alcuni grandi nomi dell’editoria hanno lanciato un messaggio che dovrebbe essere considerato con attenzione: oggi si possono pubblicare libri, specie se di narrativa, soltanto se i costi di realizzazione e produzione sono già coperti prima di andare in stampa. Perché il mercato è saturo, il 99% dei titoli pubblicati non vende neppure quanto serve per ripagare i costi vivi e editare libri sta diventando un’operazione in perdita. Sta insomma accadendo quel che già accaduto in altri ambiti dell’editoria: il prodotto in sé si fa in perdita, e allora vale la pena di farlo solo se si ha lo spirito del mecenate o, più frequentemente, se la propria presenza in quel tipo di mercato editoriale è funzionale ad altre finalità, secondo la politica tipica dei grandi gruppi che devono tutelare, attraverso la circolazione delle idee, interessi di altro genere.
Sul Festival si è liberi di pensare quel che si vuole, e di ritenerla una risposta pasticciata e poco etica a una crisi manifesta. Ma il mesaggio è, appunto, che ormai anche i grandi editori ci dicono che la crisi è talmente grave che vale la pena di “sporcarsi le mani” con proposte di questo tenore. Gli aspiranti scrittori ci sono: se vogliono pubblicare si accomodino e, da soli o in solido coi loro colleghi, mettano le risorse economiche per consentire a un editore di produrre un libro che si è già ripagato ancor prima di arrivare in libreria. La morale sul rischio imprenditoriale è sempre affascinante, ma nella pratica fuori luogo: perché qui non si parla di rischio, ma di certezza di produrre in perdita.
Noi continuiamo a pensare che la strada non sia questa. Per una casa editrice nata con le nostre finalità, far pagare agli autori il costo della produzione è inutile, assai prima che immorale: perché tutto si risolve in un’operazione autoreferenziale che non produce alcuna circolazione di idee, né riflessioni sulla realtà sociale del nostro paese.
Continuiamo però a ritenere che i lettori, se esistono, dovrebbero farsi carico, in una qualche forma, di questa scommessa sulla capacità del buon editore di scovare autori di qualità. Perché il messaggio degli organizzatori del Festival è chiaro: se non è già prepagato, oggi un libro non può essere pubblicato. Ed è un messaggio che vale per tutti.