Partiamo dall’antica e quanto mai stantia dicotomia tra cinema di genere e cinema d’autore, che soprattutto nel Belpaese ha spesso dato vita a improbabili scaramucce dialettiche tra ingenui cinephile e addetti ai lavori decisamente miopi nei confronti dell’evoluzione cinematografica. Che ci si soffermi su dei canovacci prefissati in libera elaborazione o ci si appresti al mezzo audiovisivo in maniera sperimentale, personale o jazzistica, è innegabile che a dare il peso concettuale all’opera siano gli individui, e ci si appresta alla visione centripeta universalizzante quanto più è nei personaggi la sfaccettatura del concept di base. Allora non importa se ci si addentra nei generi o nei sottogeneri, se in nuce si parte da un fondamentale individualismo.
Nella storia produttiva del regista danese Nicolas Winding Refn c’è evidentemente questa impronta personale. Egli, pur professatosi sostenitore entusiasta di mondo movies, poliziotteschi, softcore e spaghetti western, ha rielaborato la propria anima cinefila in una commistione alta tra immagini e fortissima espressione del proprio ego. Così il cinema di Refn si focalizza sugli individui, come nelle derive crime dei Pusher dove è l’essere umano coinvolto nell’ambiente criminale a essere messo al microscopio, per poi diventare letteralmente intimista. Mentre la carriera del regista cresce produttivamente, egli trasforma i plot affidatigli in manifesto della propria espressività.
Così Bronson è l’ammissione della volontà di affermarsi nello showbiz, Valhalla Rising è la presa di coscienza di un uomo che diventa adulto, e quest’ultimo Drive, premiato come miglior regia a Cannes, è una dichiarazione d’amore per la propria famiglia. Chi conosce Nicolas Winding Refn sa che egli ama parlare spesso di due cose: del cinema anni ‘70 e ’80, di cui è appassionato, e dell’amore per la moglie Liv e i due figlioletti. Il successo esponenziale del danese ha però causato un forzato allontanamento dalla famiglia per motivi di lavoro, ed è qui che arriva il punto della presa di coscienza del regista per ciò che deve essere il concetto di base di Drive.
Il film prende le mosse molto liberamente da un romanzo pulp su uno stuntman che arrotonda parecchio come autista per rapinatori. Egli si innamora di una donna sposata e del suo bambino e affronta la microcriminalità che si scaglia contro di lui. Nella dimensione di quello che poteva essere uno sterile car chase movie, Refn pone la sua ammissione di colpevolezza nei confronti della sua famiglia. L’autista di Drive, interpretato da Ryan Gosling, ammazza e compie azioni poco pulite, ma il suo unico scopo, è evidente, è il bene della sua famiglia. Questo obiettivo però lo trasforma e lo annienta, tanto che Refn ci racconta, attraverso una grammatica cinematografica retrò anni ‘80, la nascita di un mortale. Innumerevoli i rimandi alle proprie influenze, e evidente quanto il lavoro sul livello tecnico sia stato accurato, ma guai a pensare di poter perdere di vista il fulcro del concetto narrativo.
Gianluigi Perrone