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FESTIVAL DI CANNES 2011: “Le Havre” di Aki Kaurismäki

Creato il 26 maggio 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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I miracoli accadono. Nell’ultimo film di Aki Kaurismäki, presentato in concorso, il lieto fine che riempie gli occhi di speranza non è l’esito di una sceneggiatura scritta da qualche anima bella, ma la meditata conclusione di un percorso di lotta che vede l’alleanza tra quegli individui “senza parte” (gli esclusi) delle società occidentali e i rappresentanti dei flussi migratori, e, contemporaneamente, organizza una resistenza che fornisce una nuova soggettività, innescando un movimento di sottrazione al ‘comando’ capitalistico.

Lo stile del regista finlandese è più o meno il medesimo: i personaggi sono sempre i reietti, i diseredati, confinati in qualche ghetto generato da un’attenta politica dell’esclusione che investe la maggior parte delle strutture urbane delle metropoli ‘imperiali’; gli ambienti, sia esterni che interni, sono contrassegnati da uno minimalismo che de-temporalizza la rappresentazione, facendo emergere il lato ridicolo del progresso tecnologico, che appare come una produzione compulsiva di beni destinati a divenire, in tempi brevissimi, rifiuti (le discariche occupano quasi sempre un ruolo decisivo nella topologia scenica dei film di Kaurismäki). I volti sono impietriti, gli sguardi spenti, i passi strascinati e stanchi.

A ridare linfa a un microcosmo morente è la presenza di un giovanissimo immigrato di colore, un ragazzino sfuggito ai controlli della polizia, di cui il protagonista, Marcel Marx (Andrè Wilms), un non più giovane lustrascarpe, moderato bevitore e vagamente charlottiano, si prende cura, tenendolo nascosto. La moglie (Kati Outinen) amministra scrupolosamente l’economia domestica, finchè non viene colpita da un male incurabile. È a partire da questa situazione che Marcel matura la volontà di fare del suo meglio per tutelare le sorti del ragazzo. Un commissario lungimirante, uscito come un folletto dalla sceneggiatura (Jean-Pierre Daroussin, attore sempre presente nelle pellicole di Robert Guédiguian), si rivelerà decisivo, impedendo il rimpatrio del piccolo (da segnalare, infine il cameo di Jean-Pierre Léaud). E, miracolosamente, la moglie del protagonista guarisce, rovesciando uno sciagurato epilogo.

I tre personaggi chiave attorno cui è costruita la storia – Marcel, il piccolo immigrato e il commissario – tessono un’alleanza inedita, perché anche chi dovrebbe essere il custode dell’ordine cede alla necessità di dare un contributo (decisivo) alla risoluzione della vicenda. Che sia questa “la moltitudine”, cioè un insieme aperto che accoglie al suo interno individui eterogenei mossi dal comune intento di smarcare il muro semiotico del capitale? Lasciando in sospeso la domanda, possiamo affermare che quello di  Kaurismäki è stato sicuramente il film più politico del festival di Cannes e dispiace davvero che non abbia ricevuto alcun riconoscimento.

Luca Biscontini


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