In quella che sembra essere un’ordinaria giornata di ottobre nella sonnolenta e soleggiata provincia di Buhl, Idaho, si svela senza troppo attendere l’incontrollabile brutalità che devia drammaticamente il fluire degli eventi. Magic Valley, opera prima del regista e sceneggiatore Jaffe Zinn, in concorso al Festival di Roma, è una composizione pittorica d’atmosfera imperniata sulla sospensione e sulla sottrazione scandite dall’allegoria della rappresentazione.
Lo sguardo di Zinn si perde nelle sconfinate distese di campi coltivati, popolati più da animali che da esseri umani, e interrotti dalla presenza di laghetti abitati da salmoni. Un ragazzo torna inquieto a casa, un allevatore di pesce scopre che l’azione sconsiderata del vicino ha provocato la morte dei suoi animali, uno sceriffo usa l’auto di servizio per i suoi affari personali, un gruppo di adolescenti è impegnato in un’inconsueta pratica di soffocamento, due fratellini che giocano travestiti da cowboy e indiani ritrovano il corpo esanime di una teenager. Mentre la famiglia si accorge della scomparsa della figlia e il nonno sceriffo si mette sulle sue tracce, i piccoli si armano di carrello e pala per dare sepoltura alla ragazza.
Zinn traccia e chiude il cerchio intorno allo spettatore, sin dall’inizio gli assegna una posizione privilegiata da cui seguire la vicenda, mostra l’accaduto eliminando la suspense dello svelamento per convogliare lo sguardo sull’irreversibilità del gesto. In un giorno, la violenza incosciente di un adolescente, che si è spinto oltre il limite, e la noncuranza di un agricoltore verso gli affari del suo vicino agitano le acque calme della città e iniettano la morte nella sperduta provincia americana. Il male è annidato e pronto a manifestarsi a Buhl come nella Twin Peaks di Lynch e nelle lande de La rabbia giovane di Malick, si dimena con ferocia tanto nella società quanto nella (metaforica) natura, si insinua di soppiatto nelle menti fino a farle ammalare. Tra fissazioni, crudeltà e bassezze, i personaggi coinvolti nella storia ci appaiono incompiuti e pieni di macchie, meschini e claudicanti, siano essi adulti o adolescenti. L’incomunicabilità generazionale, l’errore fatale e irreversibile dell’adolescente (e skater) TJ (Kyle Gallner), la macchina da presa che segue i personaggi portando lo spettatore ad assumere lo stesso atteggiamento, sono elementi narrativi e formali che strizzano l’occhio al Gus Van Sant di Paranoid Park. Il manierismo tematico ed estetico di Zinn – eseguito con una cura maniacale grazie al supporto plastico della fotografia di Sean Kirby – marca una geografia dell’abbandono penetrante, sebbene poco originale. La valle incantata altro non è che una terra di distanze, di isolamento, di piccoli abusi perpetrati e subiti ad ogni età. Come fossero in un acquario, i corpi di Zinn galleggiano senza mai dirigersi verso una meta, si guardano silenziosi perché incapaci di rompere la solitudine che li abita mentre soffocano per il veleno che respirano.
Il malessere dilagante che uccide, moralmente o fisicamente, gli abitanti di Buhl è la chiave dell’ambiziosa anti-fiaba adolescenziale di Zinn, piccolo gioiello cinematografico dove la potenza dell’immagine sovrasta la parola. La luce si spegne per lasciare il posto all’oscurità dell’animo umano, la vita di un ragazzo è irrimediabilmente compromessa, una ragazza muore per un gioco esasperato, famigliari imperfetti sono scossi dalla tragedia. La vita continua nella certezza della malvagità implosa in città, messaggio perfettamente riassunto nella macabra scena finale.
Francesca Vantaggiato
Scritto da Redazione il nov 2 2011. Registrato sotto IN SALA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione