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Il Festival di Roma nasce nel 2006, fortissimamente voluto da Walter Veltroni, il sindaco più cinefilo che Roma abbia mai avuto (più cinefilo che sindaco, a detta di qualcuno...). L'idea era quella di organizzare una rassegna che avrebbe dovuto rivolgersi al grande pubblico, con film di qualità ma non di nicchia, a prezzi economici e tante iniziative per avvicinare gli spettatori e farne un evento più 'popolare' possibile. Non a caso all'inizio la denominazione ufficiale era 'Festa' e non 'Festival', proprio a rimarcarne il carattere ludico e giocoso...
I problemi però nacquero subito: innanzitutto per la collocazione in calendario scelta (fine ottobre/inizio novembre) che suscitò immediatamente l'ira degli organizzatori della Mostra di Venezia, che vedevano come fumo negli occhi la nascita di un pericoloso concorrente (nonostante le poco credibili dichiarazioni di 'non belligeranza' pronunciate da Veltroni), ma anche per l'oggettiva difficoltà di portare a Roma star internazionali in grado di far decollare l'evento (specialmente quelle americane, sempre restìe a voli transoceanici poco remunerativi). Tuttavia bisogna riconoscere che nei primi anni qualche buon titolo lo abbiamo visto: sono passati dalla Capitale film belli e importanti come The Prestige, This is England, Juno, Onora il padre e la madre, Il vento fa il suo giro...
Poi, però, dopo un biennio di 'rodaggio' si arriva al 2008, ovvero l'anno-zero per il centrosinistra: in pochi mesi la geografia politica italiana cambia radicalmente: il debole governo Prodi crolla lacerato dalle lotte intestine, Walter Veltroni si immola a vittima sacrificale, abbandonando la carica di sindaco e accettando di sfidare Berlusconi in una missione impossibile, vale a dire le nuove elezioni. Tutti ricordiamo come finì: Veltroni venne sonoramente sconfitto alle politiche mentre, per la prima volta nella storia, Roma elesse un sindaco dichiaratamente di destra nella persona di Gianni Alemanno, salutata dai clacson di giubilo dei tassisti.
E anche per la neonata Festa il cambiamento non passò inosservato: Alemanno, da bravo e pragmatico ex-camerata, non usò giri di parole per far intendere che del giocattolino veltroniano non gliene poteva fregare di meno: non garantiva alcun guadagno (anzi...) e non c'era ragione di tenerlo in vita. Ma poi, raccattato di malavoglia qualche spicciolo da parte degli sponsor, e anche per non essere additato come il tipico sindaco rozzo e fascista che fa a pezzi la cultura, la rassegna continuò. Ovviamente nel segno della Destra e del conservatorismo: fatta fuori ogni velleità di rivolgersi al pubblico giovane e cinefilo (chiaramente di sinistra), al timone della presidenza viene nominato l'ottantaseienne Gian Luigi Rondi, che imprime una svolta da par suo: per prima cosa cambia il nome, che passa da 'Festa' a 'Festival' per accentuarne il carattere competitivo, sfoltisce drasticamente il numero dei film partecipanti e, appunto, la fa diventare una competizione con varie sezioni. Esattamente come Cannes, Berlino, Locarno e, ahimè, Venezia...
Già, Venezia. A questo punto la 'guerra' tra i due festival diventa dichiarata ed esplode nel più becero campanilismo italico: le due rassegne si 'rubano' i film a vicenda, con conseguenti feroci polemiche. Il ministro della Cultura, il veneto Galan, dichiara che 'in Italia un festival del cinema basta e avanza' (lascio a voi indovinare quale...). Alemanno risponde che lui non vede nemmeno con la lente d'ingrandimento i munifici contributi statali che arrivano in laguna, e che la sua manifestazione è finanziata quasi totalmente dagli sponsor. Dal Lido rispondono a loro volta che finchè il clima è questo, di collaborazione non se ne parla. Alla fine si arriva a una 'tregua armata': Roma accetterà di spostare 'un pochino' in avanti la sua collocazione in calendario, Venezia garantisce che non interferirà sulle selezioni. Sarà così? La risposta è ancora più retorica della domanda... lo dimostra, è storia recente, il 'ratto' del nuovo direttore artistico Marco Muller, in rotta con gli organizzatori veneziani e sbarcato in pompa magna sulle rive del Tevere.
Fattostà che il Festival di Roma oggi è esattamente quello di quattro anni fa: una creatura ibrida, nè carne nè pesce, malvoluta dalla politica, non troppo sentita dal pubblico, troppo grande per essere un festival di nicchia e troppo piccolo per competere con le grandi e storiche rassegne cinefile. Qualche buon film lo si vede ancora, ma quasi tutti fuori concorso e invitati dai (pochi) sponsor. Di star se ne vedono pochine, il tappeto rosso è troppo spesso desolatamente calpestato da carneadi, i prezzi non sono più così bassi come prima. Ma il vero problema è il Concorso, ovvero la sezione competitiva, 'anima' di qualsiasi festival: qualche film discreto, qualche titolo di buon livello che si eleva sopra la media, ma nel complesso una selezione scarsina e poco appetibile. Del resto, basta scorrere l'albo d'oro per rendersene conto...
Già, l'albo d'oro. Sono di queste ore le feroci polemiche sul verdetto, a detta di tanti 'ignobile', soprattutto verso E la chiamano estate di Paolo Franchi (ma molti non hanno gradito nemmeno il vincitore, Marfa Girl). Non avendo visto nessun film, ovviamente non mi pronuncio. Ma mi permetto di insinuare una cosa: è un vecchio trucco, in tempi di vacche magre (cinematograficamente parlando) quello di premiare film controversi, scandalosi, o magari semplicemente brutti, allo scopo di catalizzare l'opinione pubblica e fare pubblicità gratuita alla rassegna. Insomma, il vecchio detto 'parlatene male purchè ne parliate' è sempre valido. Soprattutto per un festival sempre più mediocre e sempre più ignorato dai media.
E, lasciatemelo dire, anche abbastanza inutile. Almeno per come è adesso.
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