Tomba di Guglielmo il Maresciallo, signore di Pembroke: il perfetto prototipo del feudatario.
I feudatari sono stati un bel po’ strapazzati dalla leggenda. Ce li immaginiamo confinati in grandi sale buie dove si annoiano a morte. Per distrarsi, fanno la guerra, bruciano le case dei contadini, calpestano i raccolti con gli zoccoli dei loro cavalli, saccheggiano i monasteri, ed, eventualmente, partono per una crociata, lasciando le loro mogli segregate in casa, senza altro da fare se non ricamare interminabili arazzi, quando non si fanno raccontare storielle da qualche delizioso paggio.
È successo che, curiosamente, si è andato a cercare il modello di feudatario nelle chansons de geste, che sono pure e semplici opere di fantasia, nient’altro che invenzioni letterarie. Le chansons de geste non hanno alcuna pretesa di descrivere una società. Sono un’eco della grande lotta che preoccupa in quel tempo il mondo occidentale: la lotta contro i “Saraceni”. Sbrigliando la fantasia poetica, esse esaltano l’eroismo, la fedeltà al signore, il coraggio in battaglia: manca qualsiasi intento documentaristico.
La prima figura che ci viene in mente pensando al signore feudale è il don Rodrigo dei Promessi Sposi, la cui signorile arroganza è entrata un po’ nelle antipatie di tutti, ma quella arroganza è tipica proprio del contesto in cui Manzoni la colloca, il Seicento, e nel Medioevo un simile atteggiamento sarebbe stato inammissibile.
Il signore si annoia? Non è l’impressione che dà ai suoi contemporanei. Il vescovo di Rénnes Stefano de Fougères, che scrive, verso il 1174, il Livre des Manières, poema nel quale passa in rassegna i differenti “tipi” umani dei suoi tempi – cavaliere, chierico, villano, ecc. -, dipinge la vita del signore come strapiena di cose da fare:
Va qui e là, e spesso gira;
non riposa, né si ferma:
vaga da un castello all’altro,
spesso brioso e più spesso stanco.
Va qui e là, e non si riposa,
curando che la sua marca non resti priva di difesa.
Il feudatario ci appare dunque prima di tutto come un militare. Il suo sigillo lo ritrae a cavallo, con l’elmo e la spada in pugno. La funzione militare è di fatto la prima delle sue funzioni, che d’altronde è riservata a lui: il popolo minuto, contadini e artigiani, non combatte. Solo il signore deve il servizio d’armi, e deve adempierlo di persona. Ogni volta che il suo superiore glielo chiede, il vassallo deve presentarsi a lui equipaggiato, con un certo numero di uomini d’arme che deve fornire. È vero che le consuetudini fissano a quaranta giorni l’anno la durata del servizio militare.
Sigillo di Alfonso di Poitiers conte di Tolosa - XIII secolo.
Quando il feudatario è di alto rango ha alle sue dipendenze vassalli che sono signori a loro volta. Così, nel suo castello, si trovano, allevati insieme ai suoi figli, i primogeniti dei suoi vassalli. A dieci anni, tradizionalmente, vengono inviati dai padri al castello del signore. Vi riceveranno la stessa educazione dei figli del signore: il cappellano – chierico assegnato alla cappella signorile – insegnerà loro a leggere, a scrivere, spesso a parlare in latino, sempre a cantare; li si vedrà tutti insieme correre e divertirsi sulle colline e sul fiume, arrampicarsi sugli alberi o nuotare nella bella stagione, e anche, nel cortile del castello, esercitarsi al tiro con l’arco, imparare a montare a cavallo e venire iniziati a tutti i segreti della caccia, quella che in Francese si chiama la vénerie.
Giorno verrà in cui il giovane vassallo sarà chiamato a raccogliere la successione del padre. Se la successione è quella alla guida di un feudo, allora è il primogenito a ereditarlo, perché per mantenere e difendere un feudo ci vuole un uomo reso maturo dall’esperienza: quasi sempre il primogenito ha collaborato con suo padre, e, dopo di lui, ha contribuito di più all’amministrazione e alla difesa del patrimonio. Il diritto di primogenitura era il metodo più sicuro che il Medioevo avesse trovato per evitare la frammentazione che comporta l’abbandono delle campagne e per stimolare lo spirito d’iniziativa dei figli minori della famiglia: per questo ricorre così spesso nei romanzi cavallereschi la scena del giovane che parte in cerca di fortuna.
Quel giorno, il giovane vassallo si recherà al castello del signore presso cui è stato allevato, per prestargli fede e omaggio. Grande cerimonia, che si può immaginare in una sala come quella vastissima del castello della Manta (Cuneo) che mostra ancora oggi i suoi splendidi affreschi con una processione di eroi e dame: il signore, seduto su un trono sopraelevato, circondato da tutti gli altri vassalli, vede avanzare il giovane che viene a fare atto personale di omaggio. Questo giovane s’inginocchia a capo scoperto e senz’armi. Si è persino tolto il cinturone, in segno di abbandono totale al signore. Il signore gli domanda se vuole diventare suo uomo, senza riserve. Lui risponde: “Lo voglio”, e pone le sue mani in quelle del signore. Questi lo abbraccia e lo bacia sulla bocca. Poi il giovane va a giurare sul reliquiario della cappella, impegnando la sua fede nell’atto di omaggio che va ad adempiere: “Prometto in fede mia di essere, a partire da questo istante, fedele al conte e di custodire contro tutto e interamente il mio omaggio, di buona fede e senza inganno.” Generalmente, il signore gli consegna allora, simbolicamente, il suo feudo: gli dà una zolla di terra o un filo di paglia che simboleggia il dominio del quale avrà ormai la custodia.
Castello della Manta (Cuneo) - Aula - XV secolo.
L’omaggio feudale: il vassallo inginocchiato pone le mani in quelle del signore (qui, una dama). Sigillo di Raymond de Mondragon - 1200 circa.
Così questi due uomini si impegnano l’uno verso l’altro in un duplice patto per il quale farà fede la parola data: uno promette fedeltà, l’altro protezione. Fulberto, vescovo di Chartres, precisando che il vassallo deve aiuto e consiglio al suo signore, enumera gli obblighi fondamentali. L’aiuto, che comporta il servizio militare. C’è anche l’aiuto finanziario, dovuto in casi ben precisi.
Il vassallo deve una tassa al signore in quattro casi:
- se il signore è fatto prigioniero (deve aiutarlo a pagare il riscatto);
- se parte per la crociata;
- quando marita la figlia maggiore;
- quando il figlio maggiore è fatto cavaliere.
Quanto al consiglio, è un obbligo non meno rigoroso per il vassallo: deve recarsi presso il signore per dargli consiglio, in particolare quando il signore tiene le sue assise, cioè quando rende giustizia o quando deve risolvere una controversia. Così il conte di Fiandra, Carlo il Buono, si rivolge in questi termini, nel 1122, ai suoi vassalli che riunisce per giudicare una controversia tra l’abbazia di Saint-Vaast d’Arras e uno dei suoi vassalli, un cavaliere di nome Engelberto: “Miei signori, vi voglio in consiglio, per la fede che mi dovete, ritiratevi e decidete con giudizio irrevocabile ciò che conviene rispondere a Engelberto da una parte, ai monaci dall’altra.”
Infatti un altro dovere del feudatario, oltre quello militare, era quello di rendere giustizia ai vassalli di ogni condizione, e anche ai servi; da qui deriva il “diritto di vita e di morte” che ha il feudatario sul territorio, che non è il diritto di disporre a piacimento della vita e della morte di chi vive nel feudo: è semplicemente il diritto di emettere condanne a morte, parte integrante della sua funzione giudiziaria, della quale il signore deve però rendere conto non solo alla propria casata, ma anche al proprio sovrano.
In tutti i casi gravi, i vassalli dovevano essere giudicati dai loro pari, cioè da quelli del loro stesso grado. C’è stato così un celebre caso sotto il re di Francia San Luigi IX. Uno dei baroni più alti, vassallo diretto del re, Enguerrando di Coucy, ha fatto impiccare tre ragazzi che aveva sorpreso a cacciare nella sua riserva privata. I genitori dei ragazzi, sostenuti dal loro signore che era l’abate di Saint-Nicolas-au-Bois, nella diocesi di Laon, si appellano al re per farsi rendere giustizia. San Luigi convoca la sua corte, cioè gli altri suoi vassalli diretti. Costoro deliberano e chiedono al re che sia riesumata, in quest’occasione l’antica usanza, allora caduta in disuso e abolita, del duello giudiziario: due campioni, designati uno dal barone di Coucy, l’altro dall’abate di Saint-Nicolas-au-Bois, si affronteranno in campo chiuso e, a seconda del vincitore, si vedrà chi debba essere dichiarato colpevole. Ora, il re fa notare loro che questo va contro la giustizia, perché, dice, si troverà difficilmente un campione che acconsenta a combattere contro quell’alto barone che è il signore di Coucy. Il conte di Bretagna protesta: rifiutare il duello giudiziario va contro il costume. Il re gli rinfresca educatamente la memoria: “Voi non mi avete parlato così in passato, quando i baroni che dipendevano da voi portarono davanti a me delle lamentele nei vostri confronti e offrirono di provare le loro buone ragioni in battaglia contro di voi; voi rispondeste allora in nostra presenza che ciò non potesse essere liquidato con una battaglia, ma con un’inchiesta, e diceste allora che la battaglia non è la via del diritto.” Riportato così a una più giusta visione delle cose, il conte di Bretagna ritira la sua protesta e il re pronuncia la sua sentenza: il signore di Coucy dovrà pagare dodicimila lire di multa, il bosco nel quale è stato commesso il crimine gli sarà confiscato, e sarà ormai privato di ogni diritto di giudizio sui suoi vassalli (gli è tolto così il diritto di vita e di morte).
Luigi IX rende giustizia contro Enguerrando di Coucy - miniatura, XIV secolo.
A parte il santo re di Francia, d’altronde, le cronache del Medioevo hanno conservato il ricordo di tanti altri signori dal polso fermo, giusti, che tenevano alla pace, all’equità e al buon ordine. Tra i conti di Fiandra viene ad esempio ricordato Roberto II (1093-1111), buon soldato che passa la vita sotto la cotta di maglia, senza essere per questo un conquistatore, e che, l’anno della sua morte, riunisce i suoi vassalli in un’assemblea generale e li costringe a giurare la pace. Proteggere il suo feudo contro qualsiasi attacco esterno e mantenere la pace all’interno è il programma del suo governo.
Suo figlio Baldovino VII mostra ancora di più il gusto dell’ordine. Appena incoronato, convoca i signori fiamminghi ad Arras, li fa prestare per l’ennesima volta, sulle reliquie dei santi, il giuramento di rispettare l’ordine e commina le pene più rigorose contro i trasgressori. Proibisce a tutti i Fiamminghi di portare armi, a meno che non siano balivi, castellani o ufficiali del principe. Per colpi e ferite, la pena del taglione. Per la violazione notturna di domicilio, l’incendio o la minaccia d’incendio, la pena di morte. Gli ufficiali del conte che hanno commesso delitti punibili con una multa pagheranno il doppio. Questo giudice di pace così rude esegue lui stesso gli arresti e la sua giustizia è estremamente sommaria. Un nobile ha depredato alcuni mercanti che si recavano a una fiera: il conte lo fa impiccare, lui e i suoi complici, nella prigione del suo castello di Wynendale.
Il suo successore Carlo il Buono mostra lo stesso zelo per la sicurezza dei suoi sudditi e la protezione dei deboli: testimonia una preferenza evidente per le classi diseredate; da cui la sua popolarità e il sincero rimpianto che la sua morte suscita: infatti doveva morire assassinato proprio da coloro i cui eccessi aveva represso, e dal suo popolo venne considerato un martire del suo amore per il bene comune; la Chiesa lo ha beatificato. Il cronachista Gilberto racconta più di un episodio di questa giustizia: “Un giorno – dice – duecento infelici vennero a cercare il conte durante la notte, si prosternarono ai suoi piedi e lo supplicarono di accordare loro, come aveva sempre fatto, il suo soccorso paterno. Chiesero che fosse reso loro quel che era stato preso: il loro bestiame, il loro denaro, i mobili delle loro case, tutto ciò che era stato rubato dai nipoti del prevosto di Saint-Donatien de Bruges e soprattutto da Bouchard. L’indomani, arrestato dagli uomini del conte, Bouchard fu messo al bando e la sua casa data alle fiamme.” Azioni di questo genere portarono sicurezza in tutta la contea delle Fiandre e contribuirono grandemente al progresso del commercio e dell’industria. Sotto il suo regno (1119-1127), dicono gli storici fiamminghi, le fiandre godettero di totale tranquillità e di una prosperità inaudita.
Assassinio del beato Carlo il Buono conte delle Fiandre - miniatura, XIV secolo.
Come le Fiandre, anche la Normandia ebbe una dinastia di duchi giustizieri che facevano da polizia all’interno delle loro terre e punivano severamente chi violava i diritti dei deboli. Il suo primo duca, Rollone, ha lasciato nella storia il ricordo di un signore nemico giurato del disordine e assai fermo nel far regnare la pubblica sicurezza. “Egli garantì sicurezza a tutti coloro che volevano stabilirsi sulle sue terre (…), assegnò al popolo dei diritti, delle leggi perpetue e costrinse tutti a osservarle pacificamente (…) Egli impose una legge secondo la quale chi avesse prestato aiuto a un ladro dovesse essere impiccato come il ladro stesso (…). Un giorno che, dopo la caccia, si era fermato a mangiare vicino a uno stagno, in una foresta vicino Rouen, sospese i suoi bracciali d’oro ai rami di una quercia; i bracciali rimasero lì per tre anni, senza che nessuno osasse toccarli.” Per il suo buon governo, dicono le Cronache di Fontenelle, “Rollone si attirò le simpatie di gente di ogni razza e mestiere, e fece un popolo solo di gente di nazioni diverse”.
Un suo illustre discendente, Guglielmo il Conquistatore, seguirà un secolo dopo il suo esempio. Il suo biografo, Guglielmo di Poitiers, ce lo descrive come protettore delle chiese e dei monasteri, difensore della vedova e dell’orfano, sostegno dei deboli e nemico giurato dei malfattori. “Non sopportava gli omicidi, i ladri, i predoni. Chi veniva trovato colpevole di esserlo era punito senza misericordia. Diminuì le imposte affinché nessuno ne fosse schiacciato e rese giustizia a tutti secondo la legge dell’equità. Riuscì a stabilire dappertutto un tale buon ordine e tanta prosperità che il popolo applaudì di vero cuore e celebrò pubblicamente con canti di lode il principe che glieli aveva procurati.”
Il cronachista Orderico Vitale rende la stessa testimonianza a Enrico I, nipote di Guglielmo il Conquistatore: “Dal momento in cui riunì sotto la sua corona il regno d’Inghilterra e il ducato di Normandia, governò questi due stati con saggezza. Seppe tenere a bada la nobiltà inquieta, prevenire le emozioni della borghesia petulante, reprimere gli attentati degli audaci tiranni che volevano sostituirsi a lui. Quanto a coloro che erano pacifici per natura, i religiosi e il popolo minuto, li trattò sempre con dolcezza e non cessò mai di proteggerli (…). Impiegò tutte le sue energie a procurare la pace al suo popolo e castigò assai severamente coloro che osavano turbarla (…). Era l’arbitro universale di tutte le controversie che sorgevano tra i suoi sudditi.”
Guglielmo il Conquistatore - particolare dalla Tappezzeria di Bayeux, inizio XII secolo.
Alcuni di questi ritratti potranno anche essere stati esagerati dal cronachista, ma sta di fatto che, accanto ai signori barbari e crudeli (perché ce n’erano), i documenti ce ne mostrano molti chinarsi verso il povero per sollevarlo e confortarlo. Perché, alla fine, hanno un bell’essere signori, sono uomini e di conseguenza capaci di sentimenti umani, soprattutto se penetrati dagli insegnamenti della carità cristiana. Si ha addirittura l’impressione che dalla nobiltà ci si aspettasse più misura e integrità morale che nel resto della società. A volte, per lo stesso reato, la pena inflitta a un nobile è molto più severa di quella inflitta a un plebeo. Il giurista francese Beaumanoir cita un delitto per il quale “ammenda di contadino è di sessanta soldi e di gentiluomo di sessanta lire”, il che è una bella differenza: venti volte più pesante. Secondo gli Etablissement de Saint Louis (i “Decreti di San Luigi”), la colpa per la quale un “plebeo” pagherà cinquanta soldi di ammenda, comporterà per un nobile la confisca di tutti i suoi beni mobili. Tutto ciò si ritrova anche negli statuti di varie città; quelli di Palmiers fissano così le multe in caso di furto: venti lire per il barone, dieci per il cavaliere, cento soldi per il borghese, venti soldi per il villano.
Gli archivi di Francia sono pieni di documenti nei quali i signori del Medioevo creano ospedali per i malati, ospizi per i poveri, opere di assistenza, li dotano, li ingrandiscono per il sollievo degli infelici, la gloria di Dio e la salvezza della loro anima. Le fondazioni degli ospedali francesi del Medioevo ce ne fanno conoscere molti che devono alla generosità dei feudatari la loro esistenza, il loro sviluppo e la loro prosperità. A quest’epoca risalgono numerose fondazioni fatte in Bretagna da signori i cui nomi però non sono arrivati fino a noi. Anche le regioni francesi dell’lle-de-France e dello Champagne ci mostrano molte piccole fondazioni dovute ai castellani. All’interno della diocesi di Parigi, frequentemente, i baroni hanno cercato di assicurare l’assistenza ai poveri all’interno dei confini del loro feudo, allo stesso modo in cui provvedono agli altri servizi pubblici. È ciò che si vede fare per la diocesi di Parigi dai signori di Montmorency, che costruiranno gli ospedale di Montmorency e di Moisselles, e dal castellano di Tournan, al quale si può verosimilmente attribuire la fondazione dell’ospedale di questa città che egli dota di una cappellania e il cui direttore era di sua nomina. Molti cavalieri, “per carità e a gloria di Dio”, come viene detto nei documenti, consacrano a sostegno dei malati e dei poveri “i beni che sono giunti dalla grazia di Dio” e forniscono le rendite necessarie alla costruzione e all’ampliamento di un ospedale, oppure trasformano alcune delle proprie residenze in ricoveri destinati all’accoglienza delle “membra povere di Nostro Signore”. Nella diocesi di Parigi, nei secoli XII e XIII, questa iniziativa di carità privata si manifesta soprattutto nelle fondazioni fatte da cavalieri, da nobili, come per l’ospedale di Saint-Gervais a Parigi, e per quelli di Guyancourt, di Gonesse di Chateaufort e di Briis. Ora, i documenti ci mostrano che quel che era vero per la diocesi di Parigi lo era anche per il resto della Francia e dell’Europa feudale.
Una delle piaghe che più afflissero le popolazioni nel Medioevo fu il terribile contagio della lebbra. Così si moltiplicarono i lebbrosari e i lazzaretti, dove i lebbrosi venivano curati, assistiti e isolati dal resto della popolazione che potevano contaminare. I signori contribuirono così tanto alla loro creazione che si arrivò a considerare il ricovero per i lebbrosi come un segno di distinzione per un feudo. “Un castello che vuole darsi il titolo di castellania – dice un testo giuridico del XV secolo – deve tenere un mercato una volta all’anno, una cappella e un lazzaretto dotati di rendite e risorse.” E, in effetti, se si dà un’occhiata alle consuetudini dei feudi in diverse regioni, si vede che un buon numero di essi aggiungeva alle prerogative dei signori i diritti sui lazzaretti. L’ipotesi più convincente è che i signori fondassero spesso dei lebbrosari, senza tuttavia che vi fossero rigorosamente obbligati, e che questo sia accaduto così frequentemente che alla fine si è considerata quest’iniziativa un dovere sacrosanto.
Questi documenti, di cui potremmo allungare la lista, ci mostrano dunque i feudatari sotto una luce diversa. Lungi dall’essere dei bruti crudeli, insensibili alle miserie e alle sofferenze dell’umanità, contribuirono ad alleviarle, moltiplicando le opere di carità e di assistenza, e dotandole di edifici, di terre e di rendite. Malgrado il loro comportamento spesso rude, avevano imparato dalla Chiesa che i poveri sono “le membra sofferenti di Gesù Cristo”; sapevano che “la carità copre una moltitudine di peccati”, e spesso era fondando delle opere di carità che speravano di riscattarsi da una condotta di vita non propriamente specchiata. Sono commoventi gli ultimi insegnamenti che San Luigi IX dà a suo figlio sul letto di morte.
Abbi il cuore tenero verso i piccoli e i poveri, i deboli e i sofferenti, e confortali e aiutali secondo quanto potrai (…). Non far cadere le tue brame sul tuo popolo, non caricarlo di imposte né di taglie, se non in caso di estrema necessità.
D’altronde, beninteso, era molto più nel loro interesse alleviare la miseria che provocarla. Un prelato del Medioevo dice che, affrancando la maggior parte dei servi, una volta liberi questi lavoreranno con più zelo e piacere, perché il frutto del loro lavoro apparterrà a loro, e che tutto il paese godrà del miglioramento della loro produzione. Questo giusto ragionamento è stato fatto da un gran numero di signori.
E i feudatari fondavano anche scuole per i bambini della regione: ad esempio, un piccolo villaggio sulla Senna, Rosny, possedeva all’inizio del XIII secolo una scuola “elementare” fondata verso il 1200 dal suo signore, Guy V. Altre volte, incoraggiavano i monasteri a svolgere il compito di orfanotrofio e collegio, come il monastero femminile di Notre-Dame di Ronceray, nell’Angiò, che già nel 1116 riceve dal conte d’Angiò una dotazione affinché tredici bambini poveri di quella regione o di quella del Maine siano allevati ed educati in monastero.
Guglielmo il Maresciallo durante un torneo - miniatura dalle "Chronica Maiora" di Matteo di Parigi, XIII secolo.
Se vogliamo, dunque, immaginarci il feudatario tipo, possiamo prendere ad esempio una delle figure più importanti della storia inglese del XII secolo, Guglielmo il Maresciallo, conte di Permbroke. Era un cadetto, nipote del conte di Salisbury, ma finì per diventare il mentore di Enrico Plantageneto, figlio del re d’Inghilterra Enrico II, Riccardo Cuor di Leone lo investì conte di Pembroke facendogli sposare l’ereditiera Isabella, e successivamente divenne sceriffo del Glouchestershire, oltre ad acquisire il feudo di Leinster in Irlanda. La sua esistenza sembra uscita fuori da una chanson de geste, poiché Guglielmo fu fino alla fine il modello del perfetto cavaliere, ed era ben noto ai suoi contemporanei per essere la lealtà in persona. Rimarrà sempre al fianco dei Plantageneti, anche nelle situazioni in cui chiunque altro avrebbe voltato le spalle. I documenti immortalano le generose donazioni che elargì a molti monasteri e lo sviluppo di cui godettero le terre da lui governate, in particolar modo la contea di Leinster, mentre la sua Vita, scritta da un suo discendente, affianca tanti piccoli episodi gustosi in cui emerge un uomo “tutto d’un pezzo”. Come quello in cui, assieme al suo scudiero Eustachio, s’imbatte in due viandanti disperati: sono un monaco fuggito dal monastero con la sua innamorata. Guglielmo cerca di confortarli come può, ma va su tutte le furie quando scopre che il monaco, per avere di che vivere, ha intenzione di darsi all’usura, come dire il peggiore dei crimini; indignato, lo concia per bene e gli strappa il denaro, che distribuirà ai suoi uomini quella sera. Un uomo che prende dunque molto sul serio il suo mestiere di cavaliere e feudatario, ma che sapeva anche cantare e danzare, e perfino improvvisare dei versi.
Dipingere, d’altonde, tutti i feudatari come dei barbari ignoranti, insensibili al fascino delle lettere e delle arti, significa ignorare completamente la storia della letteratura e dell’arte medievale. Senza dubbio è esistito il tipo di nobile grossolano che sa soltanto maneggiare la spada, che passa la vita tra guerre e tornei, disprezzando poeti e artisti; ma il Medioevo ha conosciuto anche imperatori, re, grandi feudatari, semplici baroni che si appassionavano alla vita intellettuale, amavano circondarsi di trovatori e trovieri, collezionavano bei manoscritti e oggetti preziosi nelle sale splendidamente ornate dei loro castelli, e coltivavano essi stessi la poesia e le arti. Non dimentichiamo che il primo in ordine di tempo tra i trovatori non è altri che il conte di Poitiers, Guglielmo IX, duca d’Aquitania, che ci ha lasciato delle poesie di volta in volta delicate e truculente, ma sempre in un linguaggio perfetto. Del resto, l’esempio può venire da ben più in alto, dato che il re di Francia Roberto I il Pio, secondo sovrano della dinastia capetingia, figlio di Ugo Capeto, era un fine letterato, capace di comporre inni liturgici: a lui è attribuito, tradizionalmente, il Veni Sancte Spiritus, cantato ancora oggi nelle chiese all’ottava di Pentecoste.
Bibliografia
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François-Louis Ganshof, Che cos’è il feudalesimo?, Einaudi, 1989.
Georges Duby, Guglielmo il maresciallo. L’avventura del cavaliere, Laterza, 2004.