Fantastici Quattro al cinema
Quando recentemente ho rivisto Il primo uomo dello spazio (1959), mi è venuto naturale pensare ai Fantastici Quattro e chiedermi se Stan Lee lo avesse visto prima di crearli. In quel film, lo scavezzacollo e anarchico pilota militare Dan Prescott se ne va a spasso oltre la ionosfera con un missile sperimentale contravvenendo agli ordini del saggio fratello maggiore Jack pur di diventare il primo uomo dello spazio (io avrei detto “nello” spazio, ma il titolo è così).
Del resto, anche la famosa ricetta “super eroi con super problemi” si è sempre attagliata meglio all’Uomo Ragno che ai Fantastici Quattro, soprattutto se si prendono in considerazione le prime avventure, caratterizzate da un rifiuto degli eccessi, da una positiva concisione e da una narrazione di stampo tradizionale, vicina a quella dei super eroi preesistenti. La differenza, come poi risulterà sempre più evidente con il passare degli anni, è nell’atteggiamento, nell’attitudine di fronte alla propria super potenza. Da un lato la fusione con meccanismi propri della soap opera (qualcuno ha nominato la zia May?) che sulle prime viene presa come una novità, dall’altro la negazione del monolite buonistico alla Superman per sostituirlo con un magniloquente cinismo e un tasso di litigiosità tale da rivaleggiare con quello del nostro attuale Parlamento. In questo senso, i Fantastici Quattro delle origini rappresentano un punto di passaggio, legati alla missione positiva dei vecchi super eroi e caratterizzati però da una dinamica interna non lineare. Ma lascio volentieri ad altri più accurate analisi sull’argomento e del resto non sono la persona più indicata a farle. Quello che mi interessa qui è tracciare qualche considerazione sui film dei Fantastici Quattro, il primo dei quali è generalmente ignoto al pubblico non essendo mai stato ufficialmente distribuito.
Take 1: The Fantastic Four (1994)
Gli amici Reed Richards (Alex Hyde-White) e Victor Von Doom (Joseph Culp), studenti universitari, tentano insieme un ardito esperimento approfittando del passaggio di una cometa. L’esperimento fallisce e Victor, investito da terribili scariche elettriche, muore bruciato: Reed vede il suo cadavere, nascosto sotto un lenzuolo, trasportato via dall’ospedale. In realtà, però, Victor non è morto ma, rimasto sfigurato, è stato recuperato dai suoi devoti sudditi (come noi lettori di fumetti sappiamo, infatti, Victor è sovrano di uno staterello, la Latveria).
Reed risiede in un pensionato gestito dalla mamma di Susan e Johnny: Johnny è un ragazzino scapestrato, Susan, un po’ più grandicella, ha una cotta impossibile per Reed. L’atletico Ben Grimm è un amico e compagno di università di Reed. Dieci anni dopo, Reed è un po’ invecchiato – lo sappiamo perché ha le tempie brizzolate – mentre Ben è tale e quale, ma si sa che gli sportivi si mantengono bene. Johnny e Susan sono invece molto cambiati, dato che sono cambiati gli attori che li interpretano. Quindi, il romanzo tra Reed e Susan può sfociare nella sua giusta conclusione. Quando Ben e Reed vanno a prendere Susan e Johnny in vista di un nuovo esperimento, la mamma degli ultimi due, guardandoli andarsene, dice, con l’aria tra il commosso e l’estasiato delle mamme nei film: “Guardateli… i fantastici quattro!”. E questo prima ancora che abbiano i super poteri. Alla stazione, Ben urta una giovane scultrice cieca, Alicia, distruggendo la statuetta che portava con sé: è un colpo di fulmine.
Sorprendentemente, i quattro riescono a tornare sulla Terra con appena qualche graffio. Però sono stati investiti dai raggi cosmici. Conseguentemente, Susan è diventata invisibile, Johnny tossisce fuoco e Reed ha le membra allungabili. Ben sembra aver passato indenne la cosa, ma ben presto si trasforma in un mostruoso essere a placche: diversamente dagli altri, non è in grado di governare il cambiamento ed è costretto a rimanere mostruoso per tutto il tempo, sabati compresi. Un gruppo di falsi marines – in realtà uomini del Dottor Destino – raccoglie i superstiti, ma è solo l’inizio dello scontro con il vecchio ex amico e ora nemico giurato.
Il look del film è quello di un direct-to-video di accettabile qualità, chiaramente condizionato dal budget ridotto. Nonostante questo, l’approccio non è sbagliato, è molto fumettistico, nel senso più diretto del termine. Un certo umorismo pervade il film con il gusto dell’ironia un po’ semplice che è proprio dei fumetti marveliani, ma non impedisce ad alcuni aspetti drammatici di fare giustamente capolino, in particolare relativamente al personaggio di Ben Grimm che, come l’uomo lupo di Lon Chaney jr, si è trasformato in mostro suo malgrado ed è vittima di un destino ingrato che non ha scelto. è l’unico dei quattro ad avere un arco drammatico di qualche evidenza e, sia pure sotto un profilo piuttosto consueto, a sviluppare un po’ di pathos.
Alla fine dei conti, nemmeno il make-up della Cosa è poi così brutto e il “bello” dei quattro emerge come un personaggio apprezzabile. Il Dottor Destino non è più di una macchietta, un cattivo da fumetto si potrebbe dire, dalla psicologia elementare, guidato da un desiderio di vendetta elementare e non troppo spiegabile. Le sequenze che riguardano i tentativi dei suoi uomini di prendere possesso del vero diamante sono giocate un po’ troppo sul lato comico-bizzarro per mescolarsi adeguatamente con il resto del film.
Lo spirito è quello dei vecchi serial con un ritmo relativamente vivace, avvenimenti che si susseguono con buona rapidità, luoghi comuni e cliffhangers. Il confronto tra il Dottor Destino e i Fantastici Quattro ha la magniloquenza propria dei fumetti marveliani, o meglio sviluppa il rapporto tra magniloquenza e coolness, dove il cattivo parla in tono aulico e minaccioso, mentre i buoni ironizzano e fanno i fighi. L’insieme è poveristico – sembra, a vedere il film, che il milione e quattrocentomila dollari di budget dichiarato da Corman sia stato speso almeno in parte altrove – e questo si riflette sulla qualità e soprattutto sulla frequenza degli effetti speciali. La Cosa è vista in azione più frequentemente perché una volta fatto il costumone tanto valeva adoperarlo e allo stesso modo la Donna Invisibile non richiede poi troppo impegno effettistico (non siamo certo dalle parti di John P. Fulton e delle sue mirabilie ne L’uomo invisibile). Ma Mr. Fantastic e la Torcia – che avrebbero richiesto più impegno – entrano poco spesso in azione e in modo parziale e poco brillante. La fase introduttiva è piuttosto lunga e i quattro arrivano a mettersi i costume solo nella fase finale del film. La storia ha la sua buona dose di cliché e banalità e si articola su temi narrativi piuttosto scontati, ma questa non è una novità per chi legge fumetti supereroistici.
Il cast non è malvagio, nel complesso. Alex Hyde-White è un Reed Richards simpatico e adeguatamente paternale. Alex Hyde-White è figlio di un grande attore inglese – Wilfrid Hyde-Wite – che ha percorso il set di molti film per decine di anni, spesso nei panni del britannico quintessenziale e aristocratico: cito appena I figli del capitano Grant perché l’ho rivisto da poco. Anche Hyde-White jr ha comunque un curriculum di rispetto ed è apparso tra l’altro in Gods and Generals, un filmone sulla guerra civile americana che ha il privilegio di avere nella colonna sonora una magnifica canzone di Bob Dylan – ‘Cross the Green Mountain – scritta appositamente. Ne ho parlato diffusamente nel mio libro Il cinema di Bob Dylan, che certamente avrete tutti letto per cui non occorre che mi dilunghi qui. Rebecca Staab è una Susan amabile e carina, come dev’essere: nel suo cursus honorum anche la partecipazione alla sfortunata reprise del 1991 di una serie televisiva cult come Dark Shadows. Michael Bailey Smith è un Ben Grimm brusco e delicato al punto giusto e Jay Underwood è un Johnny un po’ manierato, ma accettabile. Carl Ciarfalio come Cosa dipende dalla (relativa) bontà del costumone da uomo-pietra, ma non si può dire che il suo look sia troppo diverso da quello che compare nel fumetto.
Infine, una nota di merito per la colonna sonora di David ed Eric Wurst, adeguatamente epico-romantica.
Successivamente alla sua realizzazione, il film, nonostante qualche promessa di distribuzione, resta nei magazzini e non esce nemmeno in home video. Ciò fa nascere il sospetto che sia stato realizzato solo allo scopo di non perdere l’opzione senza avere avuto mai alcuna intenzione di distribuirlo, ma questa sembra più una leggenda metropolitana che una circostanza accertata. Corman, interrogato sul punto, ha precisato che si aspettava che il film fosse distribuito e che è stato realizzato con quell’idea. Corman, comunque, non aveva alcuna voce nel capitolo distribuzione, per cui tutto è possibile.
Take Two: I fantastici quattro (2005)
L’impatto di una tempesta di raggi cosmici prodotta dai venti solari è stato decisivo per lo sviluppo della vita sulla Terra e tra sei settimane una nube composta dagli stessi elementi entrerà nell’orbita terrestre, per cui – com’è ovvio – una studio condotto nello spazio permetterebbe scoperte incredibili sul genoma umano, nuove cure per le malattie e altre cose del genere: lo sostiene il giovane scienziato Reed Richards – con l’amico Ben Grimm – chiedendo un finanziamento al vecchio compagno di studi, ora magnate egomaniaco, Victor Von Doom. Da Victor, trovano una vecchia amica, Susan Storm, ex di Reed che ora lavora per Victor (il quale ha delle svagate mire sentimentali su di lei). Victor offre a Reed un contratto capestro che questi, vicino alla bancarotta, è costretto ad accettare. Dell’equipaggio fa parte anche lo scapestrato Johnny, fratello di Susan. La missione però, a causa di un inconveniente imprevisto, fallisce e, nella stazione spaziale orbitante, tutti vengono colpiti dai raggi cosmici. Mentre sono in quarantena, Victor è alle prese con il crack della propria azienda, in seguito al disastro cosmico. Sulle prime, i quattro non sembrano aver subito conseguenze dalla loro avventura, ma, come ormai sappiamo, ben presto si rendono conto d’essere mutati avendo sviluppato ciascuno delle caratteristiche super eroistiche particolari: la nube – come concludono – ha modificato il loro DNA. Ma anche Victor Von Doom – pure lui nella stazione spaziale – è vittima dei raggi cosmici, colpito da una strana malattia degenerativa.
Chiaramente l’idea è quella di aggiornare la situazione ai cinici e disillusi anni doppio zero, ma il risultato non ha alcun fascino né presenta novità caratteriali se non in senso relativo, un senso che quindi lascia il tempo che trova. Le schermaglie sono sempre state una parte significativa dell’interazione tra i quattro anche nel fumetto, anticipando la litigiosità isterica di tutti i super gruppi che sarebbero seguiti. Ma qui i battibecchi sono poco significativi, con la Torcia Umana in testa nella classifica dell’insipienza.
Il film mostra i muscoli tipici delle super produzioni, con ambientazioni sontuose e respiro scenografico diffuso. E’ negli effetti speciali però che potrebbe avere il suo punto di forza, grazie al budget e ai progressi realizzatisi nel campo. Rispetto al film prodotto da Corman, le cose sono indubbiamente migliorate, anche se l’uso sfrenato degli effetti CGI danno la consueta aria cartoonesca alle immagini. Qualche scena ben condotta – come quella sul ponte, dove i quattro entrano per la prima volta simultaneamente in azione – mantiene comunque consistente il livello dell’intrattenimento.
Togliere al Dottor Destino il suo background, sia pure così banalmente melodrammatico, lo priva di una comprensibile ragione al suo risentimento, che non può essere sostituita dall’invidia pura e semplice e da una blanda rivalità amorosa nei confronti di Reed. Il suo corpo si trasforma via via in un lega metallico-organica, stile Tetsuo, e ciò lo rende capace di lanciare fiotti di energia e altre amenità del genere: l’insieme è ben diverso dalla tradizione e non particolarmente efficace.
All’inizio, Ben è felicemente sposato con Debbie, ma lei non accetta la sua trasformazione in pietrone umano e ciò provoca un grosso trauma in Ben. Questo elemento di pathos non è un buon sostituto della relazione con Alicia, interessante – dal punto di vista melodrammatico – perché sorta dopo la sua trasformazione in Cosa. E la successiva presenza di Alicia – sempre cieca, ma di colore, forse per aumentarne semplicisticamente il senso di presunta marginalità (ma teniamo presente che anche Tim Story è di colore, per cui potrebbero non esserci secondi fini nella scelta) – risulta poco significativa e poco sviluppata. Nelle sequenze tagliate dalla versione theatrical e poi inserite in quella estesa la relazione è un po’ più approfondita, ma resta poco incisiva.
Il dramma non emerge mai, tutto resta in superficie, tra frequenti battute ironiche che talvolta sono divertenti, ma nel complesso, per la loro insistenza, vanno contro l’efficacia della storia. è vero che si tratta di caratteristica anche dei fumetti Marvel, ma non proprio dei Fantastici Quattro degli inizi. C’è ben poca storia e tutto si risolve in sostanza nel desiderio da parte di Ben di tornare se stesso e nelle trame oscure e vendicative di Victor Von Doom, che solo alla fine del film diventa il Dottor Destino. La parte conclusiva si dedica all’azione, dopo tante schermaglie e tante parole, ottenendo discreti risultati con un dispiego simpatico di effetti speciali, ma è poca cosa nell’equilibrio di un film ipertrofico e con poca sostanza.
Jessica Alba è un faccino grazioso e poco più. Michael Chiklis nei panni di Ben Grimm e della Cosa è quello che spicca maggiormente, mentre Chris Evans dà alla torcia appena la sfrontatezza programmatica. Ioann Gruffudd è un Reed Richards piuttosto banale. Julian McMahon fa di Destino un affarista senza scrupoli, lontano da quello del fumetto ma con qualche tratto di efficacia.
Diversamente dalla gran parte dei film sui super eroi della nuova ondata, I fantastici quattro non è per nulla dark, è leggero e brillante: un tentativo di affermare il lato light, che pure era predominante un tempo, del superomismo. In questo senso, ha una sua logica e una sua ragione, ma resta pur sempre un prodotto che incide poco.
Senza raggiungere vette particolari, il film ha comunque un buon successo: l’incasso mondiale lordo è di oltre 330 milioni di dollari a fronte di un budget di 100 milioni. Sufficiente a generare un sequel.
Take Three: I Fantastici Quattro e Silver Surfer (2007)
Due anni dopo, I Fantastici Quattro e Silver Surfer ripropone lo stesso team realizzativo del film precedente, con Tim Story al timone e il medesimo cast. La storia vede l’ingresso di un altro super eroe del pantheon marveliano, Silver Surfer, un super eroe minore ma che vanta i suoi estimatori.
Misteriose interruzioni di corrente paralizzano la costa occidentale degli Stati Uniti, ma la notizia del giorno – buon tocco ironico – è il matrimonio tra Susan e Reed. Altri fatti sconcertanti si verificano in tutto il mondo: a provocarli, si scopre, è Silver Surfer, un emissario (o piuttosto araldo, come si definisce lui) alieno del potente Galactus, che intende distruggere la Terra.
Infatti, Galactus, per procurarsi l’energia che gli serve per vivere, si diletta a trarla da pianeti abitati che, dopo il suo intervento, diventano deserti di nulla. Nel frattempo, in Latveria, il Dottor Destino, messo KO alla fine del film precedente, ritorna alla coscienza e ovviamente si mette a tramare. I Fantastici Quattro devono intervenire per sistemare ogni cosa, risvegliando la coscienza “umana” di Silver Surfer, riluttante servitore di un essere supremo e supremamente crudele. Nel procedere verso questa meta, però sono costretti a un’inedita e insidiosa alleanza con il Dottor Destino, che, com’è nella sua natura, non gioca pulito.
L’ironia abbonda e gioca simpaticamente con gli aspetti commerciali e pubblicitari della popolarità. Il tono si mantiene leggero, ma stavolta, senza il peso di dover raccontare l’origine del gruppo (narrata in modo piuttosto laborioso nel film precedente), il ritmo è più brillante e gradevole. C’è più azione e maggiore enfasi è posta sugli effetti speciali, la cui caratura resta di buon livello, se non eccezionale. Alcuni momenti sono genuinamente simpatici, come quando i quattro si scambiano i loro poteri in seguito all’azione di Silver Surfer. Quest’ultimo, piagnone intergalattico portasfiga nei fumetti, mantiene in parte le sue caratteristiche anche qui. Però è più asciutto nei discorsi, con solo tracce della magniloquenza sub-shakespeariana che spesso lo rende insopportabile nelle tavole disegnate (insopportabile, è ovvio, per chi non ama la magniloquenza sub-shakespeariana). L’averlo asciugato ed essenzializzato nelle sue caratteristiche, lo rende però alla fine piuttosto anonimo e un po’ troppo svelto nel cambiare idea, anche se, nell’economia narrativa di un film rapido e leggero come questo, un arco psicologico complesso non poteva essere contemplato.
Certo non mancano gli spunti melodrammatici programmatici e vacui, come le continue lamentele di Susan per una vita normale, quando il mondo sta per essere distrutto e loro sono gli unici che potrebbero impedirlo. Non mancano nemmeno le scorciatoie narrative da feuilleton, come la somiglianza tra Susan e l’amata di Silver Surfer, il che induce quest’ultimo a salvarle la vita: stratagemma narrativo – per quanto qui sottoutilizzato – adoperato moltissime volte, anche nel Dracula di Coppola, per fare solo un esempio.
Gli attori abitano i loro personaggi con maggiore sicurezza e convinzione. In particolare, Julian McMahon può usare un Dottor Destino più apertamente “cattivo” e quindi più banale ma più simpaticamente gestibile. Rispetto al Dottor Destino dei fumetti, quello dei film ha l’abitudine a non mostrarsi quasi mai nelle vesti e nel costume da Dottor Destino per privilegiare abiti borghesi, senza maschera: per i puristi questo può essere un difetto, per gli altri non è una circostanza negativa. Stan Lee si produce in uno dei suoi consueti e simpatici cameo, mentre cerca invano di entrare al ricevimento delle nozze di Susan e Reed.
L’andamento commerciale è meno brillante: i costi aumentano (130 milioni di dollari di budget) e gli incassi diminuiscono (289 milioni di dollari è l’incasso lordo mondiale). La franchise al momento sembra in stallo, ma, con il profluvio di film super eroistici che continua a uscire, non è mai detta l’ultima parola e le voci di un reboot sono insistenti.