Il titolo del libro già allude a una ricerca, il vero nome che sta dentro al nome. E dobbiamo allora porci un problema assai serio, e cioè se il nome abiti la cosa o se sia la cosa stessa.
Nel primo caso il nome rappresenterebbe il tesoro custodito dal drago da espugnare con le armi; nel secondo caso, se il nome è la cosa stessa, la parola non è più un'arma ma il prologo di una preghiera, di un inno di lode. Non nel senso che la parola nega il dolore, ma nel senso che lo accoglie tutto come rivelazione dell'essere. Intorno a questi due poli si gioca la poesia degli ultimi anni.
Fiammetta Giugni sembrerebbe protendere verso la ricerca del nome più vero, il vero nome della cosa; che non è l'apparenza della cosa.
(fa' che)
non sia una fuga
dal mio vero nome
la poesia del nominare
Si legga l'ambiguità sottile presente in questi versi: poesia del nominare, quindi del dare il nome, riconoscerlo, già esistente e forte, nella sua cosa.
L'interesse di questo prologo è dunque dato da un'oscillazione propulsiva dei due pensieri, che spesso risolve l'irrisolutezza attingendo alla preghiera e all'invocazione - troviamo questo richiamo alla preghiera, già nei primi testi: chiamarti / nel chiuso di una chiesa vuota - .
Il nome è invocato nell'assenza del suo guscio vuoto e nello stesso tempo, nominandolo nello spazio del sacro, se ne riconosce un fondamento spirituale.
Questo "chiamarti col tuo nome per amarti / e ingenuamente indurti in tentazione", sembra rappresentare il tentativo di espugnare il nome dalla sua cavità misteriosa e trascinarlo per le strade del mondo, indurlo in tentazione.
La ricerca di questo nome, allora, non avviene per scelta strumentale di una strategia unidirezionale e programmata; a volte è il nome ad andare verso la cosa, a volte è la cosa che ha bisogno di essere riconfermata nel suo nome:
io seguo la tua forma
ma la Forma precedo
dentro la mia materia
...
se ogni sosta non è mai l'arrivo
ed è tutto un tragitto
potresti almeno dirmi
dove conduce la corsa ininterrotta
Si capisce allora come questa poesia non sia bloccata dalla diatriba di un procedimento compositivo astratto, ma tutta intenta a rincorrere le linee sghembe dell'esperienza e della vita "e mi aspettano ancora umani e animali / inerti / nelle mani degli eventi".
Si scrive "per dare un nome che resti / alla terra che mi accoglie".
Scrivere è un lavoro che non può contemplare la riflessione astratta, ma una ricerca del perduto che è in noi, "fra la mia attesa del nome / e la sua risposta sottesa".
e allora perché prego un nome
e santifico un nome
che non si lascia dire?
per ogni nome
(e perchè si compia)
voglio lasciare spazio a ogni incompiutezza.
Rinunciare a risolvere la questione di che cosa sia veramente un nome, vuol dire, in fondo, riconoscere l'irrisolutezza di Dio e accostarsi con profonda umiltà alle apparenze che ci abitano. La pronuncia del nome, allora, non ha più a che fare con la conoscenza ma con un atto di ribellione verso l'ignoranza gnoseologica:
tutti i miei contadini
(tranne uno)
si firmano con cognome e nome
io vorrei dirlo al Parolo (ad esempio)
che è l'Angelo che lo battezzò nel ventre
che si assume ogni colpa
e (se ci sarà) il perdono
vorrei dirgli che ognuno
non è presente
solo per l'appello del registro
dirgli che non risponderemo
a un ordine alfabetico e scolastico
vorrei dirgli che ogni somiglianza
che ogni costrizione della stirpe
si annulla nell'unicità del nome
ma non lo dico
perchè il mio nome (il proprio)
è un nome libero da ogni imposizione
In questo altalenare di una realtà specchiata tra due sguardi che si rispecchiano e si occultano, il nome è un atto di forza della nostra presenza.
È l'attestazione della nostra appartenenza alla specie ma anche della nostra unicità e separazione. I nomi sono solo nostri, intimi, e ciascuno ha il suo nome. Il nome è singolo e plurale nello stesso tempo perchè le cose, le esperienze, sono nostre e nello stesso tempo non ci appartengono.
Nella seconda parte del libro, dunque, l'expositio è privata, proprio perchè si tratta di riconoscere l'unicità dello sguardo, l'esclusività dei propri paesaggi interiori: San Lorenzo, Ligari, Piateda, Venina, Ambria, Pesciola, Scilironi, Piazzolare, Grumello, il paese natale, Talamona. È la poesia più materica del libro, "figliata" come "le figlie delle figlie delle figlie / delle vacche". Queste parole incassate una dentro l'altra, sottintendono il valore della memoria come gesto riassuntivo e conservativo, fino all'archetipo - e questa sembra essere la conclusione della ricerca, ma anche il raggiungimento dell'esito formale più alto:
benedici il bambino
(l'archetipo)
che dentro ci portiamo (e accanto)
quel gaudioso relitto
di storia e natura
nella calura del mio ferragosto
benedici i colori alle verdure dell'orto
i pani le torte i formaggi
benedici gli alpeggi
sui quali si accendono i fuochi
e il piccolo fuoco che a sera
salirà a ringraziarti dal brolo
Nel bellissimo poemetto finale, dedicato a una strega bruciata, lei dichiara l'appartenenza del suo nome "all'etimo dei luoghi"; lei chiama "i nomi personali / delle donne antiche / come fossero amiche". Lei dichiara di voler essere seppellita "nel suo dialetto",
e soggiunse, nella sua lingua madre:quarcém cum paròli de tèra
in dùl mè requiemtèrnam.
Il nome finale, sembra dirci Fiammetta Giugni, coincide con l'inizio. È, forse l'archetipo dell'esperienza stessa, la lingua parlata per la prima volta nell'intimità del dialetto. Lingua impastata di dura terra e di necessità di sopravvivenza.
Sebastiano Aglieco