Fiat, Marchionne, Imprenditoria…e la società che fine ha fatto? (Parte I°)

Creato il 07 ottobre 2011 da Tnepd

A distanza di un anno esatto si ripete la commedia della Fiat e di tutto il suo gruppo dirigenziale: la Fiat si è autoesclusa dalla Confindustria e ha evidenziato molto chiaramente le motivazione della sua uscita:

  • Flessibilità del mercato del lavoro (pro domo sua)
  • Abrogazione dell’art. 18 del contratto dei lavoratori (pro domo sua)
  • Sindacati inconcludenti che fanno solo politica

L’addio ufficiale per Marchionne è il primo gennaio 2012.

Credo che commentare questo fatto sia inutile quanto superfluo, perché è necessario vedere le cose da due punti vista: quello imprenditoriale con le regole attuali e quello del mondo del lavoro, le cui regole verranno completamente ribaltate, permettendo il ritorno alle feroci battaglie degli anni 60/70.

L’imprenditore cerca solo una cosa: il profitto che si esprime in termini di vantaggi finanziari e di attività reali nel territorio. Le regole attuali – in Italia – non permettono seriamente ad un imprenditore di agire come meglio crede e nel momento delle sue scelte è subissato da una selva di regole di Stato, Regionali, Provinciali e Comunali, oltre ai limiti imposti dalla sanità, dalla legge 626 e da mille altri lacci e lacciuoli che nella pratica, se fossero tutti rispettati l’impresa non nascerebbe nemmeno. Questa purtroppo è un’amara realtà.

A tutti quelli che non ci credono provino a vendere delle uova fatte direttamente dalla gallina del contadino: vi trovereste a dover fare i conti con le Asl locali, con le denunce, perché qualche cretino di turno ha avuto una scarica diarroica e via dicendo, con i libri contabili del magazzino da mantenere sempre correttamente (quante uova ha fatto la gallina e quante ne ha covato e quante ne avete venduto), dovreste avere i certificati sanitari delle Asl per le pulizia dell’ambiente, quelli per le disinfestazioni, oltre ad una miriade di timbri, firme e controtrimbri dei vari ispettori.
Per sopperire a questo, il “regime” impone che si vendano solo le uova controllate e timbrate, quelle prodotte da galline alimentate industrialmente con mais transgenico (l’80% del mangime transgenico viene dagli Usa), quelle dei produttori controllati dalle grandi catene alimentari della distribuzione, alimentate con sementi contenti antiparassitari, erbicidi, pesticidi, antibiotici e scarti di produzione alimentare (carni, cascami delle macellerie e della catena alimentare umana). Quelle uova si possono acquistare, perché le Asl le riconoscono come sane e organoletticamanete idonee all’alimentazione umana. Voi le mangereste? Io no! A tal proposto si veda il Codex Alimentarius.

Eppure in questa miriade ingarbugliata di regole, leggi e imposizioni, l’imprenditore sopravvive con la spada di Damocle di aver sbagliato qualche denuncia, di aver omesso qualche fattura, di aver registrato qualche nota di spesa in un quadro sbagliato. Ci sono decine di contadini che di fronte a selve inestricabili di inutile cartaccia hanno preferito chiudere le stalle e dedicarsi solo alla coltivazione, triste, ma è così. Eppure un tempo non era così parossistica la cosa, gli imprenditori avevano la loro fetta di profitto e l’azienda riusciva a produrre distribuendo il guadagno anche alle forze lavoro che contribuivano al suo sviluppo. Così ha funzionato per decenni!

In questa condizione così farraginosa è pacifico che nella politica assistenziale e di mantenimento del posto di lavoro – a tutti i costi – e al peso sociale-economico-impositivo, l’imprenditore cerca la possibilità di impiantare la sua azienda in luoghi dove il controllo sociale, politico, economico abbia le maglie più larghe, dando quindi a lui la possibilità di incrementare la voce profitto e diminuendo quella dei costi.

Marchionne, sotto questo punto di vista, ha agito freddamente e ha spostato gli interessi lì dove sia possibile avere un risultato senza l’aggravio politico-sociale che in Europa e sopratutto in Italia esiste. Ha fatto bene! Possiamo forse dire il contrario?

Risulta pertanto evidente che tutte le forze partecipi all’attività produttiva debbono fare degli sforzi immani per arrivare a solito risultato: profitto, che vale tanto per l’impresa quanto per il lavoratore. Però, tornando ai primi decenni degli anni 70 o anche prima, si scopre che le attività del mondo del lavoro erano molto più snelle, facili da attuare ed immediate. Era sufficiente andare presso un’azienda chiedere se aveva bisogno di un operaio o un impiegato e se la risposta era positiva la cosa era fatta; si stava in prova per un po’ di tempo e poi si veniva assunti in pianta stabile. Non c’era l’acrimonia e l’ingessatura di adesso e si poteva lavorare e cambiare lavoro con molta facilità, anche perché il lavoro ce n’era in abbondanza, era sufficiente solo la buona volontà e la voglia di lavorare. Insomma in qualche maniera nel sistema di allora – che però è stato sorgente dell’ingessatura di oggi – lavoratore ed imprenditore camminavano su due binari, spesso quasi mai convergenti. Lo scopo dell’imprenditore era guadagnare a più non posso, mentre quella del lavoratore era quella, come oggi, di portare a casa un piatto di minestra.

Le cose non sono cambiate, anzi sono cambiate in peggio, perché se in quegli anni le attività fiorivano in ogni angolo d’Italia, sorgendo spesso anche in maniera “furbesca”, adesso quello che rimane sono solo degli scheletri arrugginiti, delle piazzole invase dalle erbacce e di cartelli con scritto “affittasi”. Degli uni e degli altri non c’è l’ombra. Le motivazioni le conosciamo già da tempo: crisi della spesa, crisi industriale, indebitamento oltre ogni possibilità di ripianarli, delocalizzazione selvaggia e non regolamentata, mercato libero, sistema bancario allo sfascio.

In tutto questo marasma politico-sociale-economico e finanziario il mondo del lavoro non ha saputo trovare la strada corretta per mantenere il passo con i tempi, ma sopratutto non ha saputo reggere alla concorrenza delle forze lavoro dei paesi dell’est, prima e della Cina successivamente. L’allargamento della comunità europea tra il 1995 e il 2007 con l’entrata dei paesi dell’est europeo, permise la fuoriuscita di moltissime attività dal nostro territorio a scapito di quello nazionale; molti settori cominciarono a soffrire e le poche aziende che invece sfidavano il mercato dell’est dovevano fare i conti con i prezzi delle importazioni della concorrenza italiana che produceva in quei paesi a prezzi stracciati (una guerra commerciale tra italiani). Il collasso era alle porte e a contribuire a questo le banche fecero la loro parte finanziando a piene mani tutte quelle aziende che andavano all’est per impiantare le proprie attività e così pure i vari governi che si succedettero spingevano gli imprenditori in questa corsa selvaggia.
A Cernobbio nel 2001 i vari Prodi, Amato, Dini, Rutelli, Tremonti, Bersani e tanti altri politici che sono ancora in auge adesso, plaudevano all’espansione che il mercato avrebbe avuto, alla sana concorrenza che si sarebbe creata per una maggiore efficienza del mercato, ma sopratutto per la ricaduta occupazionale e di crescita interna (mai balla fu più gigantesca!).

Successivamente, mentre i tessitori della strage di New York piazzavano le loro prove per poter successivamente attaccare l’Iraq e l’Afghanistan, l’11 dicembre del 2001 si aprivano le porte del WTO all’Impero Celeste dichiarando per sempre chiuso un sistema economico che aveva funzionato dall’epoca della rivoluzione industriale. Come in un sistema di vasi comunicanti moltissime attività iniziarono ad essere spostate in quella terra, favorite dai prezzi della manodopera bassissima e sopratutto dalle poche regole interne cinesi. Il bengodi dell’imprenditore in genere: pagare poco e fare quello che si vuole.!

Tutte le regole sono quindi saltate, portando il mondo italiano del lavoro a rivedere le sue posizioni e sopratutto mettendo in discussione il suo futuro. Il mondo del lavoro e sindacale italiano è, nostro malgrado, il risultato di decenni di politica-clientelare selvaggia che ha teso a favorire le correnti politiche anziché quelle sociali-imprenditoriali per il benessere del lavoratore e non ultimo della comunità tutta. Quante aziende straniere, negli anni del bengodi italiano, sono state chiuse perché delocalizzavano in Polonia, in Ungheria, in Bulgaria o Romania lasciando a casa migliaia di operai ed impiegati, mentre sindacati, politici e governi non hanno mosse nemmeno un dito? Eppure quelle aziende hanno usufruito dei vantaggi italiani, della capacità italiana di saper lavorare per un prodotto di qualità, eppure, nonostante questo, all’imprenditore interessa di più l’aspetto, per così dire, frusciante del denaro. Si sono tenuti diversi forum, proteste, cortei, politici all’assalto della ribalta mediatica, ma alla fine i lavoratori hanno perso il loro sostegno e l’imprenditoria ha guadagnato la delocalizzazione, aumentando il divario sociale ed economico con quella classe di popolazione che li aveva permesso di crescere.

E’ evidente che le forze sindacali e l’imprenditoria hanno giocato un brutto scherzo al mondo del lavoro e alla comunità. I sindacati interessati al potere politico di posizione e l’imprenditoria, molto più coerente, interessata al profitto; e mentre i sindacati hanno gabbato i lavoratori per decenni promettendo ed agitando gli stendardi di una parità salariale, di una scala mobile che portò l’Italia allo sfacelo, delle gabbie salariali, ma anche permettendo una più umanizzazione delle attività come i turni di lavoro con le pause, turni al computer con pause di 15 minuti per non stancare gli occhi e molto altro, come le indennità di licenziamento, e sopratutto i piccoli progressi sull’impiego femminile e sul trattamento di questa fascia di lavoratori, gli imprenditori hanno visto bene, appena data loro l’opportunità, di abbandonare la nave prima che affondi lasciando ai remi sempre i soliti galeotti, incatenati dalle loro regole e in attesa del ritmo giusto per poter spostare la barca in qualche porto sicuro.

Queste le regole degli uni e degli altri, sommariamente riassunte e, in queste regole che hanno un peso diverso tra imprenditore e lavoratore, il mondo politico appare come estraneo al problema e cincischia non essendo in grado di dipanare la matassa, di portare idee nuove e sopratutto è troppo legato all’ossessione che deve essere tutto come prima.

In breve ci troviamo quindi davanti ad una situazione economica-sociale che è retrocessa rispetto a quanto guadagnato negli ultimi 100 anni. Un paese con oltre 1,3 miliardi di persone è quindi in grado di spostare l’ago della bilancia a favore di un sistema imprenditoriale piratesco e in questo scenario da incubo l’Italia arranca cercando il rimedio che non potrà trovare se non ritornando a soluzioni anteguerra.


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