Una lunga catena di ricordi si affaccia alla memoria nel momento in cui i calendari ci ricordano che nel 2012 cade il quarantennale della prima apparizione in Giappone, tanto fumettistica quanto televisiva, di Mazinga Z, il famoso robot gigante pilotato da un ragazzo dentro a un velivolo incastonato sulla sua testa, che lanciava pugni a razzo facendo il gesto dell’ombrello, cigolava a ogni movimento e aveva una robottessa aiutante che sparava razzi a forma di seni (o seni a forma di razzi, decidete voi).
Si tratta, dicevo, di un quarantennale. Fa impressione, vero?
Il robot di Gô Nagai apparve in Italia per la prima volta alcuni anni dopo quel 1972, nel gennaio del 1980, disordinatamente preceduto nel nostro paese, di un solo mese, da una sua versione appena più evoluta, il Grande Mazinga (creato in origine nel 1974), e di un anno e mezzo dai primissimi giapporobot lanciati nell’etere italico, Goldrake e Danguard (entrambi in Italia nel 1978, entrambi creati in Giappone dopo Mazinga Z: nel 1975 e ’77).
Sappiamo tutti che l’Italia è stato il paese occidentale (forse al mondo, fatto salvo, ovviamente, lo stesso Giappone) in cui è stato trasmesso il maggior numero di disegni animati nipponici, a tutti i livelli: emittenti in chiaro, del digitale terrestre, satellitari; nazionali, regionali, provinciali; pubbliche e private. In cui è stato messo in vendita il maggior numero di edizioni home-video di anime. E in cui, repetita iuvant, è stato pubblicato il maggior numero di titoli di manga. (Per quale motivo l’Italia non abbia acquisito una centralità mondiale in qualità di trait d’union commerciale, industriale, strategico, di mediazione fra l’industria culturale per ragazzi giapponese e i contesti di mercato occidentali, o quantomeno europei, sarà forse materia di altri interventi, chissà dove e chissà quando).
Ciò significa che una quantità enorme di italiani di varie età condivide una sostanziosissima porzione di immaginario infantile e adolescenziale, televisivo e fumettistico, con giapponesi quasi coetanei: di circa una decina d’anni più anziani. Insomma, se andate nel Sol Levante potete recarvi al karaoke con dei quarantenni e finanche cinquantenni del luogo e divertirvi da matti cantando o biascicando le tante sigle in giapponese degli anni Settanta trasmesse anche da noi negli Ottanta. Questo perché, sia detto per inciso, al karaoke in Giappone un buon 40% almeno delle canzoni più gettonate sono sigle degli anime. Parlo con cognizione di causa.
Qui finisce la parte presuntamente amena dell’articolo.
Il fatto invece che a ricordare l’infanzia e i personaggi che ne caratterizzarono i voli nella fantasia sia una generazione assai più giovane, credo dovrebbe destare maggiore interesse.
In altra sede ho provato a indicare come questa caratteristica della “nostra” generazione – quella, almeno, che condivide questo immaginario di personaggi anche nipponici, assorbiti davanti al televisore – contenga a mio avviso alcuni elementi perturbanti. La differenza e la novità rispetto al passato mi pare consistano nel fatto che questa generazione è, già nella prima fase dell’età adulta, nostalgica dell’infanzia e dei suoi personaggi e tropi, laddove le generazioni precedenti cominciavano durante l’età adulta avanzata – dicasi mezz’età – a essere nostalgici della giovinezza e dei miti a essa associati: il primo sesso, le conquiste personali, qualche viaggio avventuroso e qualche eventuale trasgressione, la musica e i balli di moda all’epoca. Certamente non i personaggi dell’infanzia.
Ma negli ultimi trent’anni si è verificata, in Italia e altrove (ce lo dicono i nostri amici francesi e spagnoli, per esempio, dove Goldorak e Mazinguer Z sono paladini amatissimi), un’anticipazione della nascita della nostalgia come sentimento di appartenenza generazionale e questa è, io penso, la spia di un disagio epocale, di uno scollamento dai processi dialettici di conflitto generazionale “classici”, per come erano stati osservati e studiati decenni fa da antropologi come Margaret Mead prima o Georges Balandier dopo, fra gli anni Venti e i Settanta.
La nostalgia di Mazinga o, mi si permetta la spudoratezza, la “Mazinga nostalgia”, è un segno dei tempi? Ci dice forse che la consapevolezza dell’assenza di un futuro sicuro ha fatto rifugiare moltissimi “giovani” (e dai con questa parola; ma come si fa a essere considerati giovani a 35 anni e più?) nel ricordo coccolante e consolatorio del passato dell’infanzia e dei suoi personaggi?
Per quale motivo, infine, oggi ci ritroviamo a celebrare Mazinga, un tipico esemplare di quella che autorevoli critici cinematografici ancora negli anni Ottanta inserivano, senza nemmeno far finta di nascondere il loro attaccamento metodologicamente puerile e anacronistico alle già allora obsolete idee francofortesi, in una “logica industriale” applicata all’immaginario per le masse (infantili e nel senso etimologico, cioè formate da bambini)?
Credo che questo tipo di celebrazioni celebri, più che gli eroi in questione, i loro ex spettatori. Ricordando Mazinga, stiamo rimembrando i noi stessi di quando eravamo bambini e i mille Mazinga della nostra infanzia li sorbivamo a dosi quotidiane, ciascuno di fronte al suo televisore di casa, per poi riraccontarceli mille volte la mattina dopo a scuola con i compagni, non tradendo così l’istinto primordiale di ogni bambino di aver narrata o magari narrarsi da solo ogni volta la stessa fiaba (non per niente la serialità iterativa con piccole variazioni sul tema degli anime fu ed è, dal punto di vista della strategia di racconto, una delle chiavi del loro successo universale).
Siamo la generazione che celebra il passato mentre il futuro va a rotoli. Ecco perché secondo me questa celebrazione sancisce una volta di più il collasso emotivo di una generazione che, almeno in parte, trova un rifugio provvisorio nella rievocazione di un tempo in cui tutto andava bene, perché non si sapeva cosa avveniva fuori da casa propria. Adesso che siamo adulti e fuori casa, in mezzo alle intemperie (letteralmente!), cerchiamo di convincerci di essere ancora al riparo. Ma quel televisore e quei robot ipercolorati noi li stiamo guardando dall’esterno, un po’ come un classico Charlot che guarda il ristorante di lusso dalla strada e si immagina di partecipare, attraverso il vetro, al pranzo luculliano che ha luogo a pochi centimetri da lui, ma a una distanza irraggiungibile.
Note positive ce ne sono, certamente: Mazinga e i suoi emuli hanno trasmesso a molti spettatori italiani alcuni sentimenti e valori, nonché un rinnovato senso del meraviglioso, che hanno dato sostanza a una vera e propria letteratura di formazione quasi totalmente nuova e autonoma rispetto a quelle del passato;
Mazinga Z in particolare, nonostante non sia affatto una serie eccellente sotto alcun aspetto se non, questo sì, la novità scenica e l’armamentario tecnologico (novità il cui impatto fu in Italia ridotto o forse annullato dalla trasmissione più tempestiva di Atlas Ufo Robot, che in realtà, come tutti sanno, in Giappone era stata creata dopo), ci disse che l’unione fa la forza, che la scienza non è né buona né cattiva ma che è l’uso che ne facciamo a determinare esiti positivi o negativi sul mondo, che per quanto il nemico sia forte dobbiamo e possiamo batterlo se siamo dalla parte della ragione.
La generazione di chi ama o ha amato Mazinga insomma, malgrado le frequenti tentazioni a guardarsi indietro e a crogiolarsi nei ricordi, è anche, o è, spero, soprattutto, quella di chi a dispetto delle difficoltà cerca e trova un lavoro, o se lo crea, e guarda avanti; quella di chi agisce onestamente e secondo coscienza; quella di chi crede nella cooperazione; quella di chi si sacrifica per sé e per gli altri; quella di chi tiene fede agli impegni. Per lo meno, è così che mi piace immaginare la porzione più bella di questa generazione, quella che, oltre ai genitori e ad altri adulti e modelli significativi, ha avuto come esempi anche quelli forniti da Mazinga, Goldrake e altri eroi giapponesi.
Se il fatto che esistano, in questa generazione che celebra Mazinga, persone buone e perbene, oneste e laboriose, corrisponde a verità, forse è anche per questo motivo che anniversari di questo tipo non fanno notizia, al di fuori del mondo degli appassionati e dei pochi operatori dell’informazione effettivamente arguti e in grado di leggere i fenomeni: l’eroe d’acciaio (anzi, per la precisione: di superlega z) che viene commemorato qui e altrove, su lidi simili a questo, è circondato e ricordato da persone essenzialmente sane, operose e produttive nonostante tutto, equilibrate (be’, la maggior parte, diciamo).
Se questa, se almeno questa, è una consolazione, allora consoliamoci e nel nostro piccolo, anche se per un’occasione per la verità molto poco solenne, “stringiamci a coorte”. Del resto c’è chi, in tempi non sospetti, disse “Viva Mazinga! Lasciamolo vedere ai bambini, tanto non sarà lui a farli rincretinire”. Ho la presunzione di pensare che non siamo diventati cretini; e se così fosse, sicuramente non per colpa di Mazinga. Il che mi pare già una ragione più che sufficiente per celebrarlo, quarant’anni dopo.
OMAGGI A MAZINGA Z
Federica Manfredi (clicca per ingrandire)
Andrea Accardi (clicca per ingrandire)
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