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FIGLIO DI DIO - di Cormac McCarthy

Creato il 13 settembre 2013 da Ilibri
FIGLIO DI DIO - di Cormac McCarthy FIGLIO DI DIO - di Cormac McCarthy

Titolo: Figlio di Dio
Autore: Cormac McCarthy
Editore: Einaudi
Anno: 2000
Traduzione: Raul Montanari

Il protagonista del romanzo, Lester Ballard, è un uomo violento dal passato difficile, un contadino del Sud rurale degli Stati Uniti, una terra dove le leggi dell’uomo sono regolate da istinti primari di sopravvivenza e dalle forze della natura.

 

Quando gli viene tolta la proprietà di famiglia e si ritrova a perdere ogni cosa, Lester affronta l’abbandono e la povertà diventando una sorta di abietto predatore. Mosso dalla miseria, dalla mancanza di giustizia e di educazione sociale si trasforma in un feroce criminale: accusato di violenza carnale e poi scagionato, Lester inizia una discesa verso la solitudine spirituale che termina in un totale imbarbarimento dell’animo: da povero diavolo, ad assassino e necrofilo.

Cormac McCarthy ci regala con “Figlio di Dio” un esempio magistrale di quello che è il suo stile: il racconto fatto di luci e di ombre di una stagione nella vita del protagonista, che in questo caso è la sua solitaria ascesa all’inferno. Lester è un minorato, la cui infermità è stata provocata dagli stessi personaggi che lo condanneranno per i suoi crimini, incapace di vivere nella società poiché privo di senso sociale, costretto a convivere con l’oscurità della sua mente (“Ci fossero state strade più buie della notte, lui le avrebbe trovate”). Le azioni di Lester provocano prima di tutto un senso di repulsione nel lettore, sono un pugno allo stomaco, ma lasciano intravedere anche un’attitudine alla bellezza non comune (“Rimase seduto per ore con il sole alle spalle, in mezzo al falasco mosso dal vento. Come se dovesse fare provvista di quel calore per l’inverno in arrivo”), il che lo rende meno insostenibile e degno di compassione:

“Ballard, una sagoma scimmiesca smarrita e senza amore, sgattaiolò via dalla piazzola così come era venuto, calpestando il fango e la ghiaia sottile e le lattine di birra schiacciate e i giornali e i preservativi lasciati lì a marcire.

Fila via figlio di puttana.

La voce si infranse contro la montagna che la rimandò indietro affievolita e inoffensiva. Poi non ci fu più nulla se non il silenzio e il profumo intenso dei fiori di caprifoglio nell’aria buia di quella notte di mezza estate.”

Lester Ballard non è un cattivo puro e in senso classico, quanto più una vittima del mondo crudele che lo circonda, una fiera che lotta con altre fiere per la sopravvivenza e come le fiere è costretto a muoversi (all’interno del testo sono numerosi, infatti, i paragoni tra il protagonista e il mondo animale). La sua vita è una lotta alla sopravvivenza: i pochi contatti di Lester con il mondo ci mostrano personaggi a volte peggiori di lui, un’umanità ottusa, povera e condotta dalla legge del più forte dalla quale tenta di difendersi come può – o come pensa sia giusto.

Per raccontare la dualità di questo mondo Mc Carthy riduce la scrittura all’essenziale, marca sui lati più crudi della vita, lascia che la bellezza del paesaggio riempia i vuoti lasciati dalla narrazione. Il suo punto di forza sta nel riuscire a bilanciare l’ostile e il non ostile, il romanticismo della descrizione del paesaggio e la violenza delle azioni dell’uomo.

E nonostante alla fine il male sembra prevalere, Mc Carthy riesce a far emergere una flebile speranza, la possibilità che possa esistere qualcosa di buono: Ballard agisce come un animale, ma in fondo rimane un figlio di dio sofferente, capace solo di sopravvivere tramite la violenza ma anche di far intravedere una flebile luce divina di speranza:

“Uscì dalla dolina per veder nascere il giorno, quasi singhiozzando per la fatica. Tutto era immobile in quel morto deserto da fiaba, i boschi inghirlandati di fiori di brina, fili d’erba che spuntavano da bianche fantasmagorie di cristallo come i merletti che la pietra disegna sul pavimento di una caverna. Non aveva ancora smesso di imprecare. Qualunque cosa fosse la voce che poi gli parlò, non era un demone ma un vecchio io perduto che ancora tornava di tanto in tanto in nome della ragione stessa, una mano che lo aiutava a ritrarsi dall’orlo della furia disastrosa in cui stava per precipitare.”

  

  

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