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Nessun padre dovrebbe sopravvivere al proprio figlio. Nessun figlio dovrebbe morire per mano del proprio padre. Vittorio Alfieri scrive Filippo per urlare il suo grido di libertà, per manifestare, forte, la propria fierezza contro la tirannia.
Il tiranno è subdolo, è maligno. Non sa amare, è solo. Vive “con” e “per” il potere. Il potere, già. Uno spazio nero; angusto. Un luogo senza tempo che solo una piccola luce, lì nel fondo, in un angolo rischiara. Non può fidarsi.
E’ temuto, odiato. Sull’odio e sul timore, egli, ha edificato il suo trono. L’inganno e la perfidia gli permettono di prevenire pericolosi ammutinamenti. La fedeltà di sodali servitori, vigliacchi, lo sollevano dal macchiarsi fisicamente del sangue per cui la sua anima è, dannata.
Come tutti i tiranni, Filippo lo è dentro e fuori la vita pubblica. Re e uomo sono un’unica cosa. Ma allo specchio il re non riconosce il padre, tale e tanto è il suo freddo, duro, arido cuore. Come, forse peggio di qualsiasi altro nemico, Filippo odia il proprio figlio perché suo contendente. Al trono; a letto. E’ così. A letto perché egli, Filippo, il tiranno, ha voluto capricciosamente per moglie l’amante del di lui figlio. Re e padre. Due immagini la cui lente dello specchio in cui egli, ogni giorno si riflette, rifrange in un’unica distorta ma vera sagoma. Quella di tiranno. Che fonde le due psiche di una mente malata di sé.
Il tiranno è malato; è doppio. Vive perché indulge nella morbosa volontà di fare del male a chi lo circonda. Il suo potere è fine a sé stesso e si alimenta dell’ignominia. Del muovere le corde più intime degli animi umani che lo circondano. E’ il suo quotidiano sollazzo, il suo soddisfacimento fisico. Capace a sostenere una chimica depravata, quella che pompa dentro alla mente il necessario per placare la fame di due stomaci, due ventri cerebrali. E’ un vampiro che esercita il suo potere dentro le proprie stanze, solo dentro la propria regale dimora. La sua violenza si ammanta di vittimismo, mezzo ambiguo sotto le cui spoglie si cela la malvagità. Un istante prima, con gli occhi lucidi del padre pietoso, di fronte alla moglie-matrigna-amante, simula il perdono del figlio-figliastro-amante. Un instante dopo ordisce il diabolico progetto che sveli la relazione amorosa dei due. Che li condurrà all’epilogo. Alla morte.
Quello di Alfieri è un testo straordinariamente attuale malgrado l’italiano del 700’, ad una superficiale lettura, può sembrare ostico. La comunicatività della prosa è tale che arriva diritto alla mente.
Venendo alla attualità civile del testo, ahinoi, verrebbe da dire che non è tanto il testo a saper parlare all’oggi, quanto gli oggi a discostarsi tropo poco da un passato non più prossimo.
Oggi, forse ci sono sempre più Gomez, qualche Filippo, e tanti, tantissimi Carlo. Sempre più vulnerabili e fragili. Valerio Binasco interpreta Filippo e firma una regia moderna. Incisiva ed efficace. Luci fredde accompagnate da musiche psichedeliche identificano i momenti del Filippo padre, mentre al buio nella cupezza dell’intimo affermarsi del potere si svolgono le azioni dialogiche del Filippo Re.
Tra il pubblico in terza fila un’insospettabile Orietta Notari, straordinaria attrice del teatro Stabile di Genova, guarda lo spettacolo cui ha prestato i suoi servigi di consulenza artistica. Ed infatti, a tratti questo Filippo ci ha ricordato altri due padri malvagi: Re Lear e Il commesso viaggiatore. Si preannuncia un’ottima stagione.
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