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Filippo Ravizza: CI MANCHERA’ IL TEMPO

Da Narcyso

Filippo Ravizza, LA QUIETE DEL MISTERO, Fiori di torchio 2012, introduzione di Corrado Bagnoli, con un’opera di Gabriella Puricelli.


Filippo Ravizza: CI MANCHERA’ IL TEMPO
“Poesia metafisica, cioé l’unica poesia davvero possibile, che si interroga anche sul suo destino di uomini e di cose”; cosí Corrado Bagnoli nella bellissima presentazione alle nuove poesie di Filippo. E’ una conferma del tono alto dell’opera di questo poeta, radicata nell’immaginario di una mittelleuropa creatrice di ponti fra culture e visioni, lingue e pensieri, preservazione del valore della lingua e malinconia struggente del perduto, della bellezza che si sgretola.
Che il problema della lingua sia centrale per Filippo Ravizza, ce lo dice, per esempio, la sua vicinanza alle istanze di progettazione culturale espresse dall’opera del Manzoni, l’idea di quella lingua comune, cioé, in grado di proiettare lo sfaccettamento di un’ Italia appena unita, nell’immaginario collettivo di una Europa vicinissima per debiti culturali, eppure lontanissima per idealismo e coesione spirituale. Una posizione controcorrente, quindi, questa di Filippo, rispetto ai fenomeni di disgregazione linguistica espressi a partire dagli anni ’70.
Queste considerazioni informano nel profondo l’opera di Ravizza, e si trasformano in risultati poetici di erranza e movimento, alla ricerca degli archetipi estetici e di pensiero di cui siamo fatti.
Cosí accade, per esempio nel testo iniziale, “Porto, Lisbona” in cui la rievocazione di un esserci stati – un punto preciso dello spazio, una data sul calendario – si trasformano nella richiesta di senso di una mancanza, della perdita di un luogo, del suo pensiero prima e della sua immagine concreta dopo: “credimi credimi/non capiremo mai perché ci/siamo stati non sapremo/ci mancherá il tempo/ci mancherá il coraggio/saremo come sono stati altri…/altri prima di noi”
Filippo Ravizza intuisce che la sfida che il tempo ci pone a resistere, non consiste nel cercare di durare più a lungo, di vincere “il nostro piccolo passare”, ma di esserci nella totalitá della specie, “dicendo sì, siamo qui, siamo/questo meccanismo/che non si puó fermare”; di rimanere, almeno per un istante, quell’istante che poi dura in eterno, “nella parola,/nella sonoritá della lingua/ (…) nella poesia,lí/dove l’essere si acquieta” (…) “prima di tornare prima di/incontrare il vuoto che/non sappiamo essere il nodo/che noi da sempre siamo”.
L’Essere, insomma, splende veramente solo nell’istante del suo farsi parola che si conosce, in grado di rapire la breve carne delle cose e il suono che le attraversa come un vento.
Non é un caso che questa riflessione sul perduto, sul rischio di una metamorfosi abnorme dell’Essere, si situi nell’epoca del maggior depauperamento; lo scatto dell’immagine, in queste poesie, si nega come feticcio, strumento di conservazione museale, ma attesta la promessa di una eternitá, bloccata nell’istante stesso in cui sentiamo l’improvviso vibrare di una gioia, intuibile non nella durata di questa vibrazione ma nell’assenza di interferenze della Storia.

Perchè qui? Sorridiamo davanti a noi
con occhi che non vacillano che vanno
verso il vento vanno attoniti e alti
verso un solo nulla che tutto ama
e contiene gli orizzonti rimasti, rimasti
lì, rimasti come i nostri corpi,
fermi per sempre nella immagine
riflessa, smossa aria,
unica illusione della mente.

Sebastiano Aglieco

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