Sono ormai convinto che la poesia sia storicamente parola senza suono e che il mito di Orfeo rimanga centrale. La poesia, prima del novecento, ha inglobato nelle figure di assonanza e nelle complesse regole metriche, la musica che è andata perduta. Il verso libero battezza la poesia con l'acqua di una completa anarchia ma lo restituisce anche a una possibilità e carica il gesto dello scrivere di un rigore, di un' autocensura necessari. Per esempio, nell'opera di Filippo Ravizza, e in maniera evidentissima in quest'ultimo libro, la parola assomiglia al vento, un vento dispiegato di lago, dicevo in un altro scritto. Che cosa porta questo vento? Porta, a mio avviso, la malinconia del perduto, di una lingua, di una cultura. "Cultura", perché la lingua ne rappresenta una delle declinazioni più necessarie, insieme al territorio, che è terra, patria. "Anche io come Alessandro Manzoni, ragiono un poco su vero poetico e vero storico; e poi sulla mia generazione, sul tempo e sul destino", dice Filippo Ravizza. Così il libro è in movimento, percorre le terre d'Europa che un poco appartengono a tutti, sparpagliati, come siamo, in un tempo che ci sovrasta e che è memoria collettiva (cultura), e memoria soggettiva (biografia). È un libro musicale, dunque: "le sillabe nel vento, il loro veloce / fluire"; "Portami verso la luce / verso nuovi alti ponti / futuri"; "Nove le parole dei naviganti / nove siano nella mente tutti / i mari", attraversato da un movimento febbrile verso una riva che tuttavia si allontana, proprio perché si allontana il tempo, (si potrebbe dire che nella poesia di Ravizza la parola non può esistere senza un tempo che la corroda, fermandola nelle ragioni del Destino degli uomini e della Storia). "Di colpo tutto verrà / tirato via sciolto nell'aria, / comparirà allora orrendo / il solo vero: superficie opaca, / traslucida, niente di niente / su cui si è srotolata questa / folle parentesi breve". La parola, e con essa l'Essere tutto, necessaria perché l'Essere possa riconoscersi e rinominarsi, è destinata a ritornare laddove sia possibile celebrare anche un minimo frammento di esistenza, la poca gioia che scaturisce dalle nervature del vivere, anche nel dolore e nella sopraffazione della vita: "diciamolo finché c'è tempo / diciamolo allora il nome il nome / di tutti nome delle cose... / mia casa mia acqua mio campo /amato mia città... / questo è il nome, il nostro nome.../ mia generazione mio tempo mia storia.. /avessi saputo di più avessi amato di più / combattuto di più portando dentro / tutto il suono di un incontro nel tempo / nel poco tempo dato...". Forse, dunque, "Nel secolo fragile" è un libro che celebra lo stupore, un canto che finalmente vuole appropriarsi della musica che abita le cose: del loro nome più veritiero.
Sebastiano Aglieco
Magazine Poesie
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