Magazine Arte
Storici dell’arte e non, operatori del settore e maverick assoluti, filosofi di professione e lettori di inserti culturali della domenica concorderanno più o meno tutti nel riconoscere nella complicità uno dei tipi se non il tipo fondamentale delle relazioni che si instaurano fra un quadro e il suo osservatore. No, L’Urlo di Munch non occasiona nessun invito autocompiacente, ma qui non si sta parlando della complicità nel senso erotofilo del termine, né si sfruculia sugli intenti pedagogici di un quadro, che per sua natura non deve tener bordone a niente e a nessuno. Però. Però una relazione di partecipazione fra l’opera d’arte e il suo fruitore sussiste, fissa ed effettiva nel corso dei secoli, fedele a se stessa nelle variabili interpretazioni che pensatori e artisti e critici hanno teorizzato nei loro tomi prima e nelle lezioni conservate via podcasting poi. Si potrebbe ciurlar col manico citando come esempio il sommo Arthur Schopenhauer che dedicò all’arte visiva e alla sua relazione con l’osservatore un intero libro del suo capolavoro ottocentesco Il mondo come volontà e rappresentazione, si potrebbe sfangarla con Gombrich e la sua psicologia dell’arte nonché le ultime acquisizioni in filosofia e scienza cognitiva relative alla filosofia della percezione, ma la vita è breve e va corretta. E d’altro canto siamo stanchi di apporti metateorici al lavoro d’arte neutralmente complici del citazionismo extra artistico che si profondono in circonvoluzioni dotte su letteratura e cinema ma che del lavoro del pittore in questione non dicono nulla.
Bando alle ciance, Filippo Robboni è un pittore che spacca e se qualcuno fosse alla ricerca di una pittura consacrata al corpo e alla corporeità nella sua produzione pittorica ci sguazzerebbe. In modo particolare fa specie che in una congerie artistica in cui il corpo va via come il pane (pittura, scultura, video e fotografia e ovviamente esperienze performative, ma in quest’ultimo caso la corporeità è un po’ come il mix vodka e vermouth, senza i quali non esisterebbe il vodka martini), il lavoro d’arte di Filippo Robboni si fonda sul corpo negandolo (insomma come la teologia negativa che descriveva Dio definendo cosa Dio non fosse): i soggetti di questo ciclo pittorico sono corpografie dei proprietari assenti della corporeità, privati della loro parte cosciente per mezzo del “toglimento” della parte oculare e di tutto il resto della storia, solo volti dai quali la pittura fa sgorgare la loro stessa essenza carnale trasfigurando la figuratività in una corporeità onnilaterale. La pittura di Filippo Robboni imprigiona i soggetti nella loro carne facendoli corpo totale e silente: l’identità è surdeterminata, non hanno alcunché da comunicare all’esterno né hanno bisogno di occasionare relazioni d’alcun tipo con l’osservatore. Nessuna empatia, nessun messaggio, il film pittorico di Filippo Robboni è ineffabile e lascia i soggetti prigionieri di se stessi in un rapporto tra finitezza umana e ciò che tale finitezza trascende: sono soli, non hanno appercezione, non hanno io cosciente, non cercano te che guardi, sono il microcosmo transitorio ed effimero ed enigmatico rispetto al quale persiste il ciclo del Tutto, il macrocosmo con le sue leggi eterne e oltreumane. Insieme all’essenza carnale, è l’accadimento (un tramonto, per esempio), che in questa nuova serie pittorica di Filippo Robboni sta lì e sopravviene in una maniera niente affatto tranquillizzante, in un circolo descrittivo dalla composizione “altra” (ciò che è evidente nella serie “geometrica” dei lavori in mostra, laddove il gruppo di opere a carattere “descrittivo” non fa che reiterare lo stesso concetto ma per mezzo di una figurazione eminentemente simbolica), negando fortemente qualsivoglia grado di empatia e relazione con l’osservatore, rispetto al quale anzi i soggetti stanno fissi e sussistenti in un tempo che non altrimenti si può definire se non eterno presente.
Emanuele Beluffi
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