Porta il significativo sottotitolo di Archeologia personale l’ultimo libro di Filippo Tuena. Lo so, può sembrare strano iniziare a parlare di un libro partendo dal suo sottotitolo, ma questo volume è veramente un’archeologia personale, uno scavare nel passato dello scrittore per ritrovare testi dispersi, pubblicati nei più svariati luoghi e nelle più svariate occasioni, o totalmente inediti. Scrivo occasioni per caso, perché il mio discorso mi conduce in quella direzione, e subito la mia mente vola a un altro libro di Tuena, Il volo dell’occasione. Quello è un romanzo, anche se lo scrittore ne è il protagonista-spettatore, un testo di finzione anche se finge di non esserlo, e unitario, quindi molto diverso da questo volume, eppure nella mia mente il legame è forte. Probabilmente perché non so separare più in singoli compartimenti le varie opere dello scrittore, non le so più separare dallo scrittore stesso, per quanto poco lo conosco. Ho conosciuto Filippo Tuena oltre sette anni fa, alla presentazione di un suo libro, e leggo le sue opere da oltre vent’anni, da quanto per caso mi sono imbattuta nel suo primo romanzo, Lo sguardo della paura.
Difficile per me separare lo scrittore dalla sua opera, e in questo caso non ne vale nemmeno la pena. Meglio, molto meglio, lasciarsi trasportare nel flusso dei suoi ricordi e delle sue narrazioni, accettando a volte anche la frammentarietà del testo, il suo spaziare su temi diversi che in realtà tanto diversi non sono, perché al centro ci sono sempre i ricordi, l’animo umano e il senso della vita. Inseguito, mai afferrato, perché come le occasioni è inafferrabile e sempre fugge via.
Quanto lunghi saranno i tuoi secoli
tanto ti seguirà il ricordo e sempre avrai
quel gesto che t’è venuto male
perché la perfezione non è qualcosa che ci appartiene, e sempre rimane il ricordo di qualcosa che si sarebbe potuta fare in modo diverso e invece no, non è possibile aggiustare il passato se non forse nel ricordo. Quanto lunghi i tuoi secoli è un libro di suggestioni, di semi piantati nella terra con la speranza che attecchiscano, per questo è tanto difficile parlarne.
Guy Gavriel Kay, uno scrittore che secondo me apprezzerebbe molto i libri di Tuena se solo conoscesse l’italiano, qualche giorno fa sul suo profilo twitter ha scritto Constantly aware that author/reader is a dialogue not a monologue. What we find (or don’t find) in a book is about us as much as the work.
Quello che troviamo nei libri lo troviamo perché siamo noi a leggerli. Per un altro lettore le suggestioni sarebbero diverse. Banalità, a volte, se può essere banale qualcosa che ci blocca e ci spinge a pensare. Quando ho incontrato il mio nome in questo volume per un attimo mi sono fermata, anche se sapevo che Filippo non stava parlando di me. Eppure ho letto quelle righe con uno spirito diverso, come a cercarvi qualcosa che stavo solo aspettando di focalizzare. No, non sono io, io mi ritrovo molto di più in altri brani, in altre parole, come in quelle usate per Zurlini.
Siamo modellati dal confine di quello che non abbiamo osato o potuto conoscere. Si cresce per sottrazioni, penso o forse, meglio, siamo sempre sul limite delle cose perdute.
Siamo sempre sul limite delle cose perdute. E non è un caso che a volte per esprimere i miei pensieri io usi le parole d’altri, perché sono più vere di quelle che potrei trovare io. Questo è il prestito di un prestito, Tuena che recensisce Sokurov usando le parole di Albertazzi a proposito di Dostojevski:
Troviamo piacere leggendo trame ben oliate, personaggi sapientemente tratteggiati, ambientazioni storiche meticolose? Parlo per me. La risposta è: no. Il senso ultimo della narrativa mi sembra oggi non sostenuto dalla trama o dai rapporti tra personaggi d’invenzione quanto dall’atteggiamento dello scrittore, dalla dose di emotività che è capace di trasmettere, dal suo mettersi in gioco. Il romanziere elabora strutture, produce resoconti, il narratore racconta e suscita ricordi, ovvero lavora sull’elaborazione affettiva di quello che racconta. E per far questo è costretto ad abbandonare la bella forma, le simmetrie rassicuranti, il rispetto delle consuetudini. Frequenta il frammentario, l’incompiuto e non per riassemblarlo. Se possibile per frantumarlo ancora di più, a volte rischiando anche il silenzio, l’irresolutezza.
Di chi stiamo parlando? L’incompiuto, che parla più di tante opere portate a perfezione, per me è Michelangelo Buonarroti, spettro che aleggia ogni volta che penso a Filippo perché è attraverso Michelangelo che sono arrivata a lui e la sua arte mi è sempre più vicina man mano che il tempo passa. Solo suggestioni, ma non posso non passare dall’una all’altra perché è l’autore stesso che lo vuole, perché Tuena ha da tempo abbandonato le consuetudini per frequentare il frammentario, e il brano che lui cita per parlare di un altro autore in realtà è uno specchio che riflette la sua immagine. Io non posso seguire il suo cammino fino in fondo, al di là della banale differenza nelle capacità di scrittura che ci pone su due livelli totalmente differenti. Per me la trama, i rapporti fra personaggi d’invenzione, sono ancora importanti, anche se non qui, non ora, e non con lui. Filippo per me è andato al di là di ogni altra considerazione, lo assaporo a frammenti sapendo che non tutti sono per me, ma quel che rimane anche togliendo ciò che non mi parla è più che abbastanza. Più che abbastanza.