Power, Iris, ore 21,05.
RIchard Gere sul set con Sidney Lumet
Malcompreso e maltrattato, soprattutto dai critici italiani, e nemmeno apprezzato a suo tempo dal pubblico. Eppure oggi questo Power, un Lumet dell’86, ci appare profetico e assai contemporaneo, raccontando di comunicazione, persuasione, manipolazione, attraverso il personaggio di un image maker, e anche un po’ spin doctor, al soldo di candidati a varie poltrone politiche. Uno che si crede capace di trasformare anche il peggiore, o più mediocre, degli uomini in un candidaro credibile in grado di attiare milioni di voti. Scontato? Forse adesso, ma trent’anni fa o quasi – tanti ne son passati dall’apparire di questo Power – di queste cose poco si parlava, ancora meno si sapeva, e cinema e tv si occuavano d’altro, mica come adesso che il discorso della comunicazione in politica è diventato un’ossessione di massa, e dell’entertainment che alle masse si rivolge. Perdipiù dietro la mcchina da presa c’è Sidney Lumet, robusto narratore come pochi, che già i meccanismi mediatici in trasformazione aveva colto negli anni Settanta con Network – Quinto potere. In Power vediamo all’opera il mago dell’immagine Pete St. John (un Richard Gere al massimo del suo fulgore fisico e divistico), impegnato a lanciare chiunque, non importa chi sia e la sua qualità, basta che paghi. Lui, la sua assistente-amante (Kate Capshaw, non ancora signora Spielberg), l’ex moglie (Julie Christie, sempre meravigliosa), il suo mentore, l’uomo che lo ha scoperto (Gene Hackman). Intanto all’orizzonte si profilano altri concorenti, anche più squali di lui. Con un finale un po’ troppo consolatorio per essere credibile. Ma questo è un film che va sottratto alla dimenticanza e rivalutato.