Acciaio, Rai Movie, ore 23,10.
La recensione è stata scritta all’uscita del film.
foto Jacopo Brogioni
Acciaio, regia di Stefano Mordini. Con Michele Riondino, Vittoria Puccini, Anna Bellezza, Matilde Giannini, Massimo Popolizio, Francesco Turbanti.
Michele Riondino è Alessio (foto Jacopo Brogioni)
Tratto dal bestseller di Silvia Avallone, racconta l’estate prima del liceo di due amiche a Piombino. Sullo sfondo, a dominare vite e cose, la grande acciaieria. Uno di quei film italiani irrisolti, imperfetti, lacunosi, anche sballati che però stanno ridisegnando faticosamente la faccia del nostro cinema tentando strade impervie, nuove, non mainstream. Qui il regista Stefano Mordini filma le sue storie proletarie con un approccio distanziante e fenomenico che ricorda quello di Andrea Arnold e dei suoi Fish Tank e Cime tempestose. Con un limite enorme: l’assoluta indeguatezza delle due ragazze protagoniste. Voto 6+
Michele Riondino e Vittoria Puccini (foto Jacopo Brogioni)
Forse qualcosa sta succedendo nel cinema italiano. Ultimamente si son visti, si stan vedendo, film di registi esordienti o comunque non consacrati, che saranno magari irrisolti, imperfetti, anche sballati, e che però vivaddio ci provano, non battono i soliti sentieri tranquillini e carucci della medietà senza rischi. Film che sbagliano, ma coraggiosamente. Che adottano stili e linguaggi in linea con certe produzioni indipendenti internazionali, pur radicandosi nel nostro humus, anche nella nostra tradizione, cinematografica e non. Butto lì qualche titolo. Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi. La città ideale di Luigi Lo Cascio (per me una sorpresa grande). Sì, pure E la chiamano estate di Paolo Franchi, fresco vincitore di due premi al Festival di Roma (per la regia, per la migliore attrice a Isabella Ferrari), massacrato senza pietà dalla nostra stampa e invece non indegno, e spero di scriverne al più presto diffusamente. A questa piccola raccolta di film sghembi, spesso maltrattati dai recensori, spesso malamati dal pubblico sempre che ce la facciano ad uscire, aggiungerei adesso Acciaio di Stefano Mordini, regista che qualche anno fa aveva messo a segno con Provincia meccanica un esordio nel lungometraggio per niente banale. Qui ci prova mettendo in cinema il romanzo-bestseller Acciaio di Silvia Avallone e ne cava qualcosa di irritante, lacunoso spesso nella narrazione e nella messa a punto dei caratteri, assai incerto nel governare messinscena e attori (penso soprattutto alle due ragazzine che definire attrici immature è un garbato eufemismo), ma dotato di uno stile visivo forte e insolito per i nostri lidi italici. Mordini affronta questa storia di una periferia provinciale avvinta a una grande fabbrica, un’acciaieria sputafuoco che la plasma, la succhia e insieme le dà vita – siamo a Piombino – con sguardo impassibile, approccio fenomenico, usando spesso camera mobile a mano o a spalla come qualche centinaia di suoi colleghi ormai in giro per il mondo, adottando una fotografia sgranata e senza profondità a creare un alone visionario, onirico, di sub o sur-realtà. Sembra di vedere, nonostante le fiamme, le scintille, il calore dell’acciaieria, personaggi che si muovono in un acquario, e non è solo per quello che il film che viene subito in mente è Fish Tank dell’inglese Andrea Arnold. Stesse vite impoverite in ambienti che un tempo di sarebbero detti alienanti, stessa working class come rosa e corrosa dentro e priva di riferimenti e punti certi fuori, e stesso disincanto da parte di chi racconta rispetto a cose e persone raccontate. Mordini privilegia il contesto, il paesaggio, il contenitore rispetto alle figure che ci si muovono dentro, riallacciandosi non so quanto volontariamente alla lezione molto italiana di Antonioni. La storia, per via del bestseller della Avallone venduto in centinaia di migliaia di copie, è nota. Tutto ruota intorno a due amiche adolescenti, Anna e Francesca, l’estate prima del liceo (una ci andrà, l’altra probabilmente si perderà). Non succede molto, anzi quasi niente, almeno fino al colpo finale. C’è un capanno in riva al mare in cui le due si rifugiano, c’è un che di fosco tra di loro, rivalità, invidia, fors’anche una sorta di osmosi e reciproca fascinazione lesbica. Intorno, le famiglie. Il padre violento di Francesca, il padre assente, nel senso che se n’è andato proprio, di Anna. E adesso l’uomo di famiglia è il fratello maggiore Alessio, orgogliosamente operaio all’acciaieria (un bravissimo Michele Riondino). Ecco, dopo chissà quanto tempo in questo film tornano gli operai, che però non sono più la mitica classe operaia della lotta marx-leninista, dell’egemonia gramsciana, se ancora sono orgogliosi di quello che fanno son però spogliati di ogni aura mitica, e immersi in quella viziosità, in quella deboscia e mollezza ormai media-di massa fatta di coca, sesso seriale, di venerdì e sabati sera sballati e alterati. Anna troverà un ragazzo e lo lascerà, Francesca avrà esperienze più toste, sfiorando la prostituzione. Distacco e incomprensioni tra le due, poi qualcosa succederà, e si ritroveranno. Uno strano teen movie più al femminile che al maschile, un racconto d’estate per niente rohmeriano di formazione e passaggio. Si direbbe che il regista non sia granchè affezionato o interessato ai suoi personaggi, li mette in scena mantenendo rispetto a loro una cauta distanza, mai entrando davvero nelle loro psicologie e tormenti. Si limita a seguirli, puntando soprattutto sulla potenza (anche simbolica, anche metaforica) delle immagini della fabbrica e del paese che intorno ad essa si stende e sopravvive, e ne è affascinato-vampirizzato. Di Acciaio restano in mente il metallo fuso e incandescente, gli uomini alle prese con quel mostro, e i fumi, i vapori, le catene, gli uncini, i clangori metallici, la ferraglia. Senza operaismi, senza ideologia. La partitura di Mondini è soprattutto visiva, a lui la fabbrica interessa solo per quante visioni può cavarne. Film strano, per certi versi non così italiano, per niente populista, per niente compiacente e piacione. Film anche antipatico. Con un limite enorme che rischia di mandarlo a fondo: le due ragazzine protagoniste, assolutamente non adeguate, che non le puoi proprio sentire da tanto che recitano (recitano?) male. Ecco, credo che i pareri negativi che Acciaio ha raccolto, fin dalla sua prima apparizione a Venezia alle Giornate degli autori, siano dovuti soprattutto a quello. Non si dica che son ragazzine, che non sono attrici di professione, basta vedere quanto Claudio Giovannesi in Alì ha gli occhi azzurri ha saputo cavare dai suoi non-attori per capire che in non ci sono missioni impossibili. Che poi uno pensa che anche la Sandrelli di Divorzio all’italiana aveva sì e no 15 anni, eppure guardate cosa ne tirò fuori Germi. In certi casi son dell’idea sia meglio ricorrere a un sano doppiaggio, come cinicamente si faceva nel vecchio cinema italiano con tante attrici belle, bellissime, ma incapaci o immature. Ma credo che la malrecitazione delle due in Acciaio sia anche la conseguenza, l’effetto collaterale, della scelta stilistica del regista di raccontare soprattutto attraverso l’immagine, la forma.