Django Unchained, Cielo (canale 26 dt), ore 21,30.
Django Unchained, regia e sceneggiatura di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Leonardo Di Caprio, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Jonah Hill, Kerry Washington, Don Johnson, Franco Nero.Il solito, vertiginoso gioco citazionista di Tarantino, che stavolta pesca dall’italian western più sadico ed estremo, ma anche dai lager-movies italiani anni ’70, dalla blaxploitation di pupe e machos neri, dal sottovalutato e mai dimenticato Mandingo produzione De Laurentiis. Tutto per imbastire il suo cinema della crudeltà e dell’efferatezza, stavolta raccontando di uno schiavo e del suo liberatore alla caccia di perfidi negrieri nel profondo Sud. Ma per favore, non prendiamolo per un film serio su schiavismo e abolizionismo. Tarantino va giù pesante e non senza grossolanità, mica è uno storico: a lui interessa lo spettacolo, e anche stavolta ci riesce. Tant’è che Django Unchaines è diventato il più gran sucesso al box office di sempre di Tarantino (426 milioni di dollari worldwide). Voto 7+
A Tarantino interessa dar corpo ai propri fantasmi e procedere alla messinscena del sangue, mica altro, mica gli interessa produrre manifesti ideologici o politici o altre varie indignazioni. La sua operazione ricorda, pur se in versione alta, quella dei lager-movies italiani degli anni Settanta (o nazixploitation), genere che lui non ha mai detto di amare ma che di sicuro conosce, quello per capirci di film come SS Lager 5, l’inferno delle donne o Lager Ssadis Kastrat Kommandatur. Film che venivano dall’imbastardimento e dalla degradazione di prototipi di una certa nobiltà come La caduta degli dei di Visconti e Il portiere di notte di Liliana Cavani.
Scena iniziale, esterno notte: lo schiavo Django (Jamie Foxx) viene liberato dopo sparatoria e relativa carneficina dei negrieri dal tedesco dottor King Schultz (Christoph Waltz, strepitoso), sedicente dentista, in realtà di mestiere bounty killer. Vuole Django al suo fianco, perché è il solo in grado di aiutarlo a rintracciare tre carogne tra loro fratelli cui sta dando la caccia e da cui ricaverebbe una ricca taglia. Tra i due, il nero e l’uomo venuto dall’Europa, nasce un sodalizio che li porta alla cattura di parecchi ricercati, fino a che approdano nella ricca magione neocoloniale in puro stile Via col vento del ricco e sadico Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio per la prima volta nel ruolo di villain): il quale tiene in schiavitù la moglie di Django (Kerry Washington). L’obiettivo, ovvio, è di liberarla e scappare con lei. Non rivelo niente, ci mancherebbe, dico solo che c’è un massacro finale, un uno-contro-tutti che Tarantino coreografa con una forza e una grazia magistrali davvero. La violenza è, come sempre nel suo cinema, e anche più di sempre, parossistica, con i colpi di pistola, fucile e mitraglia che prendono il posto delle arti marziali di Kill Bill. Stavolta il genere cinematografico di riferimento, quello da cui Quentin mutua modi e stilemi e vezzi, è lo spaghetti-western più sporco e sozzo, il più marcio e fradicio e brutale, quello del Django di Sergio Corbucci, anno 1966, dove il protagonista si muoveva nel fango trascinandosi una bara con dentro una mitragliatrice, vedendosela con un clan di feroci signorotti che lo martoriavano, lo torturavano, gli spappolavano la faccia e le mani. Del resto, tutto l’italian western è assai più estremo e radicale nello scatenamento degli istinti e della ferinità umana del suo corrispettivo hollywoodiano alla John Ford. Del film di Corbucci Tarantino fa citazioni precise e puntuali, nonostante qualche critico, anche illustre, abbia scritto che le parentele spunterebbero solo alla fine. Mica vero, non solo perché il protagonista porta quel nome lì e non un altro, non solo perché durante i titoli di testa risuona il title-song firmato Luis Bacalov di Django, ma perché alcune scene sono rifatte quasi filologicamente. Kerry Washington presa a frustrate sulla schiena viene dalla Loredana Nusciak legata e brutalizzata di Django, per non parlare della banda degli incappucciati che esisteva pari pari in Corbucci (solo che là i cappucci erano rossi, non bianchi). La lunga traversata di Django e Schultz a cavallo della praterie ghiacciate è esplicito omaggio a un altro meraviglioso western di Sergio Corbucci, Il grande silenzio, con un Trintignant incongruamente (e genialmente) immerso nella neve. Ma spuntano altri generi di riferimento, anche se meno esplicitamente dichiarati. Non solo i lager-movies di cui si diceva, ma anche la blaxploitation americana primi anni Settanta, quella dei film di machos e pupe neri destinati al mercato afroamericano, e il filone che si generò dal Mandingo di Richard Fleischer prodotto da Dino De Laurentiis. I combattimenti tra neri Mandingo, l’etnia africana considerata dai padroni schiavisti la più forte, che vediamo in Django Unchained vengono proprio da quel film e da quel filone così disprezzati a loro tempo dai critici e così amati dalle platee popolari. Da lì e dalla blaxploitation derivano anche la celebrazione e il culto del corpo maschile nero così evidenti in questo Tarantino. Corpi avvinghiati nella lotta a esibire muscoli scolpiti irrorati di sudore e sangue, perfino blocchi marmorei di lottatori in casa del cattivo padrone Candie, ancora, corpi appesi ed esposti e torturati e voluttuosamente accarezzati dalla macchina da presa. Anche i corpi femminili hanno la loro parte, ma è la carnalità macho-mandinga a dominare, trasformando il film in un possibile oggetto di culto queer. Il meglio di Django Unchained sta però nei dialoghi, così ben scritti, ambigui, sottili, allusivi, sinuosi, da lasciare incantati. Il confronto in sottofinale tra Schultz e Candie è da rimanere a bocca aperta, il cazzeggio degli incappucciati che se la prendono con chi ha confezionato cappucci così scomodi è incongruo quanto irresistibile. A valorizzare il verbo di Tarantino (che, in my opinion, è prima di tutto un grande sceneggiatore e dialoghista) è soprattutto Christoph Waltz con il suo accento vagamente teutonico che si inerpica sulle ampollosità e volute del testo con lo stesso impegno con cui affronterebbe Shakespeare o Schiller. Onore a Samuel L. Jackson, irriconoscibile e strepitoso nel personaggio meno scontato e più ambiguo di tutti, quello del nero che governa con pugno di ferro la servitù di colore dello spietato Candie/DiCaprio, il corrispettivo di quello che erano i kapò nei campi di sterminio nazisti, l’oppresso che passa dalla parte dell’oppressore e si fa suo complice e strumento. Qui Tarantino, che per il resto del film conduce il suo discorso sulla schiavitù con rozzezza e grossolanità, badando soprattutto agli effetti e effettacci drammaturgici e spettacolari, riesce a entrare nella zona grigia e a raccontarci di come il Bene talvolta si possa corrompere e mettere al servizio del Male. Alla fine, anche grazie a iniezioni di intelligenza come questa, Tarantino vince la sua scommesa, ci travolge di nuovo e ci fa dimenticare per un po’, ma non troppo, il sapore di déjà-vu del suo gioco citazionista. Però, se la prossima volta cambia la ricetta mica ci spiacerebbe.