Quando la notte, Rai Movie, ore 23,35.
Quando la notte di Cristina Comencini. Con Claudia Pandolfi, Filippo Timi, Michela Cescon, Thomas Trabacchi.
(La recensione è stata scritta dopo la proiezione del film al festival di Venezia 2011)
Non sono di quelli (ce ne sono, ce ne sono) che vanno alle proiezioni stampa dei film italiani in concorso, o di certi film almeno, già pregiudizialmente sfavorevoli e pronti a fischiare. Quanto è successo alla Bellucci di Un été brûlant, praticamente linciata, lo trovo ignobile. I buu, i fischi, gli sghignazzi per questo Quando la notte sono sì incivili e sgradevoli, ma purtroppo non immeritati. Per la prima mezz’ora vediamo solo una madre, Marina (Caudia Pandolfi), in vacanza in una sinistra casa dalle parti di Macugnaga (avevo scritto Alto Adige, ma un lettore mi ha avvisato dell’errore: grazie) alle prese col bimbetto Marco di due anni che piange giorno e notte. Dico: mezz’ora di strilli. Scopriamo che al piano di sotto abita il padrone di casa, un certo Manfred (un torvo Filippo Timi) che di mestiere fa la guida alpina, e che vediamo anche lui insonne per via del bimbetto di cui sopra (e del piano di sopra). A guardarlo in faccia, il Manfred, c’è da avere un po’ paura, sempre ingrugnato com’è, e difatti quando Marina, durante un’escursione verso un rifugio, si vede portar via il figlioletto Marco da lui, si fa venire i peggiori sospetti. E noi spettatori pure. Ecco, questa parte del film, anche se con caratteri tagliati con l’accetta e una messinscena di piatta descrittività, almeno riesce a suggerire un po’ d’ombra, un po’ di ambiguità, pare aprire piste narrative suscettibili di un qualche interesse, qualcosa come un thriller dell’anima.
La regista Cristina Comencini
Poi tutto si banalizza. Siamo dalle parti di Cogne, psicologicamente e narrativamente parlando. Una notte il bambino è vittima di qualcosa nella sua stanza: è caduto, come dice mamma Marina o è stata lei a menarlo esasperata da quei giorni di pianto incessante? La guida Manfred/Timi sospetta il peggio, e a questo punto noi intuiamo che nella sua vita infantile Manfred deve aver conosciuto qualche brutto trauma con la mamma, sennò non sarebbe così sensibile alla sorte del piccolo Marco: perché è proprio lui che sfonda la porta dell’appartamento di sopra, trova mamma Pandolfi incosciente, porta il bambino ferito in ospedale salvandogli la vita. Quel che segue è l’incontro tra due anime che l’autrice vorrebbe devastate e ferite, ma che sembrano uscire dalle peggiori fiction televisive. Soprattutto, c’è uno svuotamento narrativo, nulla di interessante e avvincente succede più. Il film si blocca. Dialoghi che non vorremmo mai sentire da tanto che sono goffi e improbabili, scene d’amore imbarazzanti, simbologie ridicole (le cabine della funivia con lei e lui che si incrociano e si allontanano, a significare l’impossibilità dell’incontro). Manfred ha due fratelli, tutti lavoratori di montagna, tutti e tre sono nati nella stessa baita lassù tra le cime, e nessuno di loro che parli con lo stesso accento. Il meglio alla fin fine sono le occhiaie della Pandolfi, molto credibile come mammina prostrata dalle notti insonni causa pianti e strilli del pupo.